Questo mese torniamo ad ospitare in Expert Corner il Prof Preti che ci parlerà di Blue Whale Challenge: Un ‘meme’ maligno.
Antonio Preti è psichiatra e psicoterapeuta, svolge attività come consulente psichiatra presso il Centro di Psichiatria di Consulenza e Psicosomatica dell’Azienda mista Universitaria-Ospedaliera di Cagliari ed insegna Tecniche della Riabilitazione Psichiatrica nei corsi dell’Università di Cagliari. È autore o co-autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche, in buona parte dedicate alla epidemiologia e ai fattori di rischio del suicidio. È membro di svariate società scientifiche, tra cui la New York Academy of Sciences. Svolge il ruolo di revisore scientifico per numerose riviste scientifiche internazionali, ed è membro del board di alcune di esse, come Psychological Assessment, dell’American Psychological Association (APA), e Crisis, una delle riviste dell’International Association for Suicide Prevention (IASP).
Q1. Prof Preti, la vicenda Blue Whale ha fatto molto scalpore nei media italiani e non solo, può raccontarci come e da dove è cominciato tutto?
La vicenda della balonottera azzurra, questo il significato di ‘Blue Whale’, ha il sapore della leggenda che invade la realtà. Verrebbe da citare il KeyserSöze dei “Soliti sospetti”, il film che ha lanciato la carriera di Kevin Spacey: “Il più grande inganno del diavolo è stato quello di far credere al mondo che lui non esiste”.
Inizia tutto con un articolo pubblicato in Russia. Nel maggio 2016 la rivista Novaja Gazeta pubblica un articolo dedicato a un fenomeno che, a dire dell’autrice del reportage, starebbe coinvolgendo un numero crescente di minori in Russia. Galina Mursaliyeva, questo il nome della giornalista, nel suo articolo descrive le imprese di un gruppo, “F57”, attivo su un social network molto popolare tra i teenager russi, VKontakted[1]. Il gruppo sarebbe volto alla diffusione di pratiche che esiterebbero nel suicidio dichi si faccia coinvolgere. Tali pratiche si incentrerebbero su un gioco, denominato “Blue Whale” o “Blue Whale Challenge”[2], gestito da un’applicazione scaricabile solo nel Dark Web. L’applicazione istruirebbe il giocatore a compiere nell’arco di 50 giorni una serie di azioni, una per ogni giorno, sotto comando di un “curatore”. Tali azioni inizierebbero con compiti semplici ma inusuali, come “alzati alle 4:20 del mattino”, e precipiterebbero in un crescendo di sfide (“guarda da solo il film dell’orrore che ti è stato inviato”), sino a gesti autolesionistici, ed infine l’invito a gettarsi nel vuoto da un punto elevato. Secondo la Mursaliyeva ben 130 suicidi di minori in Russia sarebbero attribuibili al “Blue Whale Challenge”.
Molte delle prove che la Mursaliyeva produce a sostegno di quanto afferma sono aneddotiche: l’intervista alla madre di una dodicenne, che si sarebbe tolta la vita gettandosi da un palazzo, e che nel periodo precedente avrebbe preso a disegnare balene e farfalle, forse, lascia intendere l’articolista, istigata dai membri di una chat di VKontakted cui la ragazza era iscritta, “Svegliami alle 4:20”. C’è poi il caso, celebre in Russia, di Rina Palenkova, una ragazza di sedici anni, popolare sui social media, che aveva annunciato il proprio suicidio su VKontakted e lo aveva documentato con un video prima di gettarsi sotto a un treno nel 2015. Intorno alla ragazzina si sviluppò in Russia una sorta di culto macabro, con fenomeni di imitazione che suscitarono allarme tra le autorità. Taluno legò il nome della ragazza al “Blue Whale Challenge”, e negli articoli sul tema viene descritta spesso come la prima vittima del gioco, nonostante dettagli e circostanze siano chiaramente divergenti rispetto a quelli che caratterizzerebbero il fenomeno.
Insomma, la Mursaliyeva non appare in grado di produrre evidenze documentali concrete di quanto afferma, ed è dubbia persino l’origine del nome del presunto gioco. Secondo alcuni deriverebbe dal verso di una canzone del gruppo punk Russo Lumen, un verso che recita “una grossa balena azzurra non può rompere la rete”[3]. Secondo altri sarebbe riferimento al fenomeno dello spiaggiamento, la tendenza di alcunicetacei, in particolare la balenottera azzurra (la Balaenopteramusculus di Linneo), a perdere la rotta in condizioni di isolamento e morire sulle spiagge sulle quali si arenano. Lo spiaggiamento delle balene è stato da taluni assimilato al suicidio, ma la spiegazione più probabile è che si tratti dell’esito di atti non intenzionali, causati da malattia o da danni fisicidovuti ai sonar militari.
Comunque sia, per mesi l’articolo della Mursaliyevarimane confinato alle riviste online, che riprendono distrattamente il tema senza tanta convinzione. Nei primi mesi del 2017, però, dell’argomento si impadroniscono i giornali scandalistici britannici, come The Sun[4] e The Mirror[5], millantando un diffondersi del gioco letale tra i teenager occidentali, sulla scorta di segnalazioni spesso inverificabili. A marzo 2017 i principali quotidiani italiani pubblicano alcuni articoli sul fenomeno, con poca cura del controllo delle fonti. Nel maggio 2017 il popolare programma televisivo Le iene manda in onda un servizio che ingigantisce di molto l’allarme sociale sul fenomeno. Corredano il servizio alcuni video drammatici su tentati suicidi che sarebberoda ricollegare al “Blue Whale Challenge”. Si scoprirà poi, per la stessa ammissione di uno degli autori del servizio, Matteo Viviani, che i video erano dei falsi, o del tutto scollegati dal fenomeno che si intendeva illustrare[6]. Uno dei video riguardava un fatto di molto antecedenteall’esplosione del fenomeno, un altro riguardava un fatto occorso in Cina. Un terzo video era stato montato ad arte[7].
Tuttavia non va trascurato il rischio di “contagio” o imitazione (“copycat”) che Internet può favorire. L’effetto imitativo è ben noto in suicidologia, cosiddetto “effetto Werther”[8]. Dopo la morte di una celebrità, il numero dei suicidi aumenta, e non di rado il metodo utilizzato per darsi la morte è lo stesso utilizzato dalla celebrità[9]. Il fenomeno non è limitato al mondo occidentale, ma è stato osservato anche in oriente[10]. In effetti, vi è un accordo generale tra gli esperti sul fatto che i media dovrebbero evitare di dare troppo risalto alla morte per suicidio di qualcuno, sia esso o meno una celebrità[11]. Nessun dettaglio sulle modalità della morte andrebbe riportato. Andrebbero enfatizzate le cause trattabili del rischio suicidiario e offerte informazioni su centri e programmi di trattamento. Al momento, tuttavia, vi è un’ampia gamma di indicazioni e linee-guida, con confusione spesso sui termini e le pratiche da adottare[12]. I social media, in particolare, come Facebook, Twitter, Tumblr, Instagram, fanno una certa fatica a confrontarsi con il fenomeno suicidario.
A dispetto di queste indicazioni di cautela, il quotidiano Il Giornale, sulla scorta del servizio de Le Iene, è arrivato addirittura a pubblicare la lista dei 50 compiti da svolgere per “completare” il gioco della balenottera azzurra, regole recuperate, a detta dell’autrice dell’articolo, dal social Reddit[13]. Non una scelta saggia, dato l’elevata frequenza di condotte imitative tra coloro che manifestano ideazione suicidaria.
Q2. Quindi una vicenda dai molti lati oscuri, come si è arrivati a fare chiarezza?
Sì, in effetti, una vicenda parecchio ingarbugliata. Purtroppo non sono stati solo i giornali scandalistici ad avere dato credito alla vicenda del “Blue Whale Challenge”. Marco Ballarin, in un bell’articolo di debunking della vicenda[14], ricorda come l’edizione Italiana di Wired, mensile dei geek acculturati, abbia dapprima ripreso la notizia con un editoriale allarmato dal titolo “Blue Whale e l’idiozia sempre connessa”, a firma Alberto Grandi[15], per poi abbassare il tiro con un aggiornamento online in cui si insinuava il dubbio sull’esistenza di un gioco che induceva al suicidio. Infine, la redazione di Wired correggeva definitivamente il proprio approccio ammettendo pacificamente che la storia era inverificabile ed aveva poco fondamento, pur sottolineando il rischio implicito nel discorso (lo “storytelling”) che si era sviluppato sui media a proposito del tema[16].
Gli intellettuali digitali di Wired sono in buona compagnia. Nel Novembre 2017 la serissima rivista “Science and Engineering Ethics” ha pubblicato un breve articolo a firma di quattro studiosi indiani, tre antropologi e un medico forense, in cui si dà per certa l’esistenza del “Blue Whale Challenge”, se ne dettagliano le regole, si descrive il suo pericoloso diffondersi attraverso i social network, si afferma risolutamente la tendenza camaleontica dei distributori del gioco, reso disponibile con nomi sempre diversi per eludere i controlli[17]. Viene inoltre presentata una lista di paesi (Argentina, Brasile, Bulgaria, Cile, Cina, Italia, Stati Uniti, India) nei quali il gioco avrebbe mietuto vittime. L’India, in effetti, è uno dei paesi nei quali l’allarme mediatico sul caso è stato particolarmente intenso, al punto da spingere la sezione indiana dell’UNICEF a diramare una dichiarazione specifica sul tema, che sembra dare credito alle notizie diffuse dai giornali[18].
In realtà, motivi per dubitare di queste ed altre simili notizie ne esistono, a cominciare dalla scarsa verificabilità dei “fatti” riportati da quotidiani o siti online. L’opera di fact-checking e debunking del “Blue Whale Challenge”è iniziata quasi subito, ad opera di blogger e giornalisti impegnati nello svelamento delle bufale. In Italia, tra i primi a smontare la consistenza delle notizie circolate in rete sul “Blue Whale Challenge” è stato Michelangelo Coltelli, alias maicolengelbutac, curatore del sito “Bufale un tanto al chilo”, impegnato in una incessante opera di demistificazione delle bufale e delle fake news. Nel suo articolo, in data 9 marzo 2017, Coltelli dimostra lo scarso fondamento di tutte le notizie sulle quali si fonderebbe il mito del “Blue Whale Challenge”, passando in rassegna le precedenti analisi condotte sul tema dal giornalismo investigativo[19]. Per una ricostruzione più articolata della genesi e della diffusione del mito della “Blue Whale”, oltre all’articolo di Ballarin, il lettore interessato può consultare la sintesi offerta da David Puente, altro debunker attivo in rete e più volte minacciato per la sua attività di demistificazione[20].
Ma cosa può esserci di vero nelle storie che rimbalzano tra web e carta stampata a proposito del “Blue Whale Challenge”?Di certo c’è il nome di una persona che sarebbe implicata nel diffondersi di notizie sul “Blue Whale Challenge”. Un tal Philipp Budeikin viene indicato volta a volta come l’ideatore del gioco o il curatore di alcune chat che lo diffondevano. È descritto come uno psicologo, o studente di psicologia, ovvero come una persona affetta da disturbi mentali (si sarebbe autodiagnosticato il disturbo “bipolare”) che avrebbe iniziato a frequentare chat nelle quali si discuteva di suicidio. Forse avrebbe incoraggiato taluno dei frequentatori a portare a compimento i propri propositi, e si sarebbe autoaccusato di induzione al suicidio, assumendo la responsabilità di una decina di suicidi. Gli sono attribuite dichiarazioni infamanti, come la volontà tramite il gioco di liberare il mondo dai deboli e dagli inadatti, o al contrario intenzioni nobili, come il promuovere iniziative di supporto e sostegno rivolte a chi manifesta idee di auto-soppressione. Sarebbe stato arrestato in Russia e condannato a tre anni di carcere, un po’ poco per istigazione al suicidio, che nel nostro ordinamento è punito con condanne da cinque a dodici anni, ed è equiparato all’omicidio se sono coinvolti minori. Il giornalismo di inchiesta, quello serio, non ha trovato evidenza alcuna che colleghi Budeikin ai suicidi che gli sarebbero ascritti[21]. L’intera vicenda appare nebulosa. Esisterebbe un sito intitolato “Blue Whale”, sorto in celebrazione di Rina Palenkova, ma, a parte la macabra dedizione al tema del suicidio, i frequentatori non hanno rapporti con il presunto gioco[22]. Sembra che il “Blue Whale Challenge” sia sorto come concept, elaborato per attirare visitatori ad alcuni siti dedicati a teenager, senza intenzione alcuna di istigare al suicidio[23].
Ma allora perché l’articolo della Mursaliyeva? Secondo alcuni, una manovra volta a screditare i social network, percepiti dalle autorità come pericolose fucine di sobillatori anti-governativi[24]. Secondo altri, un tentativo maldestro di “trovare il colpevole”[25]. La Russia è uno dei paesi con il più alto tasso di suicidi nel mondo[26], e la mortalità per suicidio è particolarmente elevata, e in crescita, tra i minori[27]. Accusare il fantomatico curatore di un gioco di essere il responsabile delle morti per suicidio di ragazzini e ragazzine sposta l’attenzione dalle cause reali: la cronica incapacità del governo di fronteggiare il disagio sociale, la carenza di adeguate misure di prevenzione di quell’autentica piaga che è in Russia l’abuso di alcool, la scarsa accessibilità alle cure mediche specialistiche, soprattutto per le fasce sociali marginali.
Q3. In tema di suicidio, quanto il facile accesso ad internet può rappresentare un rischio per i giovani nativi digitali?
Credo vada sottolineato il fatto che forum o chat dedicate al suicidio sono un dato reale e non fabbricato dalla stampa scandalistica. La loro esistenza è nota da tempo.In uno studio apparso nel 2008, Recupero e collaboratori hanno illustrato svariate tipologie di siti web dedicati al suicidio, molti orientati all’informazione la più neutra possibile, una frazione più specificamente dedicati a combattere il fenomeno, ed una minoranza, classificati come pro-suicidio, istituiti con lo scopo di fornire notizie volte a favorire la messa in atto di propositi suicidari[28].
Nel 2009 Birbal e collaboratori descrivevano tre tipologie di cybersuicidio, come è da taluno definito il processo di reclutamento, messa in scena, e suicidio espresso tramite internet:
1) il patto suicidario;
2) la trasmissione in diretta della propria morte (deathcasting);
3) la simulazione online del suicidio[29].
Il patto suicidario online ha le stesse modalità di quello off line, ma è facilitato dalla ricerca del potenziale partner in rete, condotta in modo anonimo e interagendo con sconosciuti[30].La simulazione online del proprio suicidio non è, per il fatto di essere “falsa”, meno pericolosa, perché può suscitare volontà di emulazione. Il deathcasting, tuttavia, è la modalità di cybersuicidio più disturbante. Il caso più noto e tragico negli ultimi anni è quello di Katelyn Nicole Davis, una dodicenne della Georgia, Stati Uniti, che dopo un’infanzia sofferta ed avere lamentato abusi sessualiad opera di un parente, si uccise il 30 Dicembre 2016 impiccandosi a un albero nel giardino di casa. La ragazza aveva programmato la ripresa audiovisiva della propria morte, che trasmise in diretta su Facebook Live. La trasmissione proseguì dopo la morte per asfissia della ragazza per oltre venti minuti, mostrando il corpo esanime della vittima appesa al cappio, prima che venisse interrotta dall’arrivo dei soccorsi. In breve tempo il video è diventato “virale”, nonostante gli sforzi della polizia per imporne la cancellazione da ogni sito sul quale fosse stato caricato.
Al momento non vi sono evidenze di un incremento dei tassi suicidari attribuibile alla frequentazione di forum o chat dedicate al suicidio. Al contrario, vi sono modeste evidenze di un potenziale effetto benefico della frequentazione di questi siti, poiché è favorito il dialogo, che può alleviare l’urgenza suicidaria. Inoltre, siti supervisionati da personale esperto possono fornire supporto e indicazioni altrimenti inaccessibili a soggetti che sono spesso socialmente isolati[31].
Come detto, però, non va trascurato il rischio di “contagio” o imitazione che Internet può favorire.Il deathcasting, in particolare, può esercitare un’influenza maligna. Riguardo all’esistenza di “giochi” dedicati al suicidio, anche questa è una triste realtà. A tutt’oggi è accessibile in Internet un giochino piuttosto stupido intitolato “Simulation of suicide”, con varie alternative a fondo pagina[32]. Non è noto se queste iniziative siano in qualche modo combattute dai siti sui quali sono caricati questi “giochi” di dubbio gusto.
Q4. Smontare le bufale funziona in termini di prevenzione, e nel caso specifico ha frenato il diffondersi di notizie infondate sul presunto “Blue Whale Challenge”?
Vorrei dire di sì. Il diffondersi della “buona” informazione avrebbe dovuto condurre a un inabissamento della inafferrabile “Blue Whale”. Così non è stato. Come in un episodio sceneggiato male di “Black Mirror” sono cominciate ad apparire sulle riviste scientifiche segnalazioni di condotte autolesive poste in essere da ragazzini, più spesso ragazzine, che gli amici o i genitori attribuiscono alla partecipazione nel “Blue Whale Challenge“.
Il 30 gennaio 2018 sull’Asian Journal of Psychiatry compare una lettera all’editore nella quale si prende per buona la notizia che due studentesse di un college pakistano si sarebbero autoinferte dei tagli a un braccio con una lama, apparentemente su istigazione di un’applicazione collegate al “Blue Whale Challenge“, venendo perciò espulse dalla scuola[33].
Nel marzo del 2018 la rivista scientifica Asia–Pacific Psychiatry ha pubblicato un case report dedicato a un ragazzino di Nuova Delhi che sarebbe stato condotto a consultazione dal padre, preoccupato perché il figlio, che mai aveva dato motivo di allarme, aveva cominciato a comportarsi in modo strano, anche compiendo atti autolesivi, come tracciarsi con un temperino la scritta “F15” sul braccio. Interrogato, il ragazzino avrebbe ammesso di avere scaricato un’applicazione, inviatagli al suo personale social media account. Una volta installata, l’applicazione avrebbe mostrato un’icona in forma di un “grosso pesce”, ed avrebbe iniziato a stimolarlo ad eseguire dei compiti specifici, quali: incidersi una frase su un braccio, stare in piedi su un balcone per 2 o 3 ore, disegnare sul corpo l’immagine di una balenottera blu, ascoltare in modo ripetitivo una melodia suonata dall’applicazione.
Secondo il resoconto dei sanitari, sarebbe stato il padre del ragazzo, avendo riconosciuto nell’icona dell’applicazione sullo smartphone del figlio l’immagine del “Blue Whale Challenge“, di cui tanto si parlava sui giornali, a condurlo al Pronto Soccorso. La valutazione condotta dal team del Pronto Soccorso avrebbe rivelato un modesto quadro depressivo, di scarso rilievo clinico. Interrogato del perché del suo comportamento, il ragazzo avrebbe ammesso di essere stato spinto dalla curiosità. Voleva sapere a cosa portava quel “gioco”, pur essendo al corrente del legame dell’applicazione con il suicidio[34].
Nel giugno 2018 un editoriale della rivista Lancet Child & Adolescent Health, sezione specialista dell’autorevole rivista britannica, trattando del rischio di suicidio tra i fanciulli e gli adolescenti in Cina dà per certa l’esistenza di un ”gioco online dedicato al suicidio conosciuto come ‘Blue Whale’, che ha avuto origine in Russia e si è diffuso anche in diversi paesi asiatici, inclusa la Cina”[35]. Secondo gli autori, “i partecipanti a questo gioco devono completare una serie di attività dannose che alla fine portano al suicidio. Se un partecipante vuole smettere, l’organizzatore minaccia di danneggiare la sua famiglia e di rivelare le sue informazioni private”. L’applicazione, infatti, conterrebbe un virus, che trasmetterebbe al “curatore” ogni informazione privata del giocatore[36].
L’esistenza di un reale “gioco” con le caratteristiche del “Blue Whale Challenge“ sembrerebbe confermata da un case report apparso sull’Indian Journal of Psychiatry nel gennaio 2019[37]. Il caso riguarda un ragazzino di 17 anni. Uno dei suoi insegnanti avrebbe notato sul polso dell’allievo una cicatrice a forma di pesce, avvisando quindi le autorità competenti e la famiglia. Il ragazzo aveva una storia di umore depresso e crescente irritabilità, e alla visita medica ammise ideazione suicidaria, giunta alla soglia della progettazione. Avrebbe anche ammesso di avere ricercato informazioni sul “Blue Whale Challenge“ su Facebook, certo che il gioco lo avrebbe guidato nel suo proposito di togliersi la vita. Non è chiaro come il ragazzo abbia intrapreso il suo percorso, giunto al 40° compito al momento della visita, se tramite un’applicazione o per avere scaricato la lista delle cinquanta “regole” da Facebook. Il ragazzo avrebbe dichiarato che completare ognuno dei compiti lo faceva sentire meglio, e questo era il principale motivo che lo aveva spinto a continuare.
Una rassegna più estesa di casi giunge dall’Italia, pubblicata su una rivista di scienze forensi. Si tratta di una serie di cinque casi, discussi alla luce della, poca, letteratura scientifica sull’argomento[38]. Dato interessante, mentre l’inviante adulto manifestava la certezza o almeno il dubbio che i comportamenti autolesivi del minore fossero da attribuire alla partecipazione nel macabro gioco, le ragazzine interessate (età 14-17 anni) negavano recisamente di essere mai state coinvolte nel “Blue Whale Challenge“.
Q5. Quanto è grave il rischio che l’invasione della realtà ad opera di questa leggenda si traduca poi in un incremento delle condotte suicidarie tra gli adolescenti?
In effetti, il “Blue Whale Challenge” sembra essere una leggenda che si è fatta realtà. Ciò nonostante, la poca casistica riportata nella letteratura scientifica suggerisce che molte presunte vittime del gioco siano in realtà estranee al fenomeno. Ragazzini, più spesso ragazzine, che i familiari o gli amici hanno temuto potessero essere stati coinvolti nel leggendario gioco. L’allarme sociale, di livello tale in alcuni paesi da spingere rispettabilissime organizzazioni o singoli scienziati a dare credito alla vicenda, è il primo effetto della campagna giornalistica sviluppatasi tra il 2016 e la metà del 2017.
Tuttavia, in almeno un caso, quello descritto dall’Indian Journal of Psychiatry, sembrerebbe che il ragazzino abbia realmente applicato per libera scelta le “regole” del gioco, recuperate, forse, da uno dei social network frequentati. Un altro caso clinico, quello descritto dall’Asia-Pacific Psychiatry, testimonierebbe di un reale interesse per il tema da parte di minori stregati dalla morte e attraversati da isolate fantasie di suicidio.
Fino ad oggi solo due organizzazioni scientifiche hanno ritenuto di diramare un comunicato incentrato sul “Blue Whale Challenge”. L’American Association of Suicidology (AAS) ha espressamente sollevato dubbi sulla consistenza delle notizie diffuse sui social media a proposito di un “game that allegedly encourages young people to engage in self-harm and suicidal behavior”, un gioco che si dice incoraggerebbe i giovani a impegnarsi in comportamenti autolesionistici e suicidi. L’AAS invita a una rigorosa cautela nel diffondere notizie in proposito. Nelle parole del presidente della AAS, “Ogni volta che un ragazzino muore per suicidio, cerchiamo il motivo per cui ciò è accaduto. Il suicidio è complicato e non ha mai una singola causa. Suggerire che eventi come la Blue Whale Challenge possano avere un ruolo causalenel suicidio giovanile rischia di minimizzare il dolore emotivo e di discriminare ulteriormente coloro che soffrono”[39].
La International BullyingPreventionAssociation ha diramato un comunicato in cui si dichiara esplicitamente la natura infondata delle notizie diffuse in merito al “Blue Whale Challenge”. In particolare, viene specificato che “not a single suicide (nor any harm what so ever) has been confirmed to be linked to the challenge”, nessun suicidio (o evento autolesivo) è stato confermato essere associato al gioco[40]. Tuttavia si sottolineano i rischi di imitazione e di autosuggestione, ed il pericolo che persone senza scrupoli o bulli possano utilizzare la curiosità suscitata in Internet intorno al “gioco” per prendere di mira i ragazzi più fragili. Il comunicato conclude invitando genitori ed educatori a prestare attenzione ai minori che manifestino difficoltà. Esiste concreta la possibilità che minori con difficoltà psicologiche si facciano trascinare nella ricerca e poi frequentazione di siti (forum, chat) dedicati al suicidio e incappino nella descrizione delle “regole del gioco”.È un pericolo che era stato segnalato da chi si era occupato dell’argomento in modo professionale, ad esempio il giornalista Paolo Attivissimo[41], o i blogger che per primi avevano “smontato” la bufala del gioco mortale giunto dalla Russia[42].
Questo è di fatto il rischio maggiore, il rischio che la diffusione sconsiderata di presunte “regole del gioco” precipiti un processo di autosuggestione che spingerebbe il giovane con ideazione suicidaria a seguire tali regole nell’attesa che esse possano guidarlo alla morte per suicidio rinforzandone la motivazione e la determinazione.
Purtroppo questo non è un’ipotesi puramente accademica. Le “50 regole del gioco della balenottera azzurra” pubblicate da alcuni quotidiani e diffuse nei social media sono costruite in modo tale da desensibilizzare il “giocatore” all’idea della morte ed abituarlo a gesti sempre più autolesivi, anche liberandolo dal timore della sofferenza, un importante freno alla messa in atto di propositi suicidari. Secondo Thomas Joiner, noto studioso del suicidio ed attuale Editor-In-Chief della rivista Suicide and Life-Threatening Behavior, la “capacità acquisita di effettuare un atto di letale autolesionismo” è il fattore critico che discrimina la semplice ideazione dalla messa in atto di condotte suicidarie[43]. La ripetizione di agiti autolesivi, abbiano o meno intento suicidario, costituisce una base esperienziale che, attraverso l’abitudine al coinvolgimento con la paura e il dolore,porrebbele basi per un tentativo di suicidio serio[44].
Q6. Come affrontare il diffondersi di queste idee virali maligne?
Mettere fuori gioco il “Blue Whale Challenge” non è impresa semplice. L’impressione di alcuni studiosi, che però sembrano dare credito a qualunque notizia apparsa sulla stampa, è che il “gioco” in quanto tale non esista come applicazione scaricabile, ma coincida interamente con le 50 “regole” diffuse sui social, e poi pubblicate su alcuni quotidiani[45]. Insomma, il “Blue Whale Challenge” è un meme che si diffonde come notizia.Un meme è una “unità culturale”, come un’idea o una moda, un aggregato semplice di contenuti, insomma, che si propaga tra le persone per imitazione e condivisione. Internet è un “ambiente” particolarmente fertile per la diffusione di un meme.
Nel caso del “Blue Whale Challenge”, esso si è manifestato come meme autoreplicante, diffuso in ambiti ristretti dei social media, ed ha acquisito poi vita indipendente grazie all’eco garantito dalla stampa e dalla televisione. Oggi, il solo parlarne sui social media senza le dovute cautele potrebbe riattivare la catena che può esitare in un gesto irrimediabile. Per arrestarne la diffusione, molti social network starebbero dando la caccia ai messaggi che contengano un qualche riferimento al gioco[46]. Instagram mostra un avvertimento quando le persone cercano immagini relative al “Blue Whale Challenge”, invitando a consultare gruppi di supporto. Lo stesso starebbe facendo Tumblr. Tuttavia, ci sarebbe almeno una persona che si sarebbe proposta su Twitter come potenziale “curatore” per vittime[47].
In Italia, l’allarme sociale suscitato dal servizio de Le iene ha spinto la Polizia Postale a diramare un comunicato con alcuni consigli rivolti ai genitori ed ai ragazzi riguardo a temi collegati al “Blue Whale Challenge”[48]. Il comunicato sembra dare credito ad alcune delle notizie apparse online, ma come detto, non può escludersi che il meccanismo abbia ormai preso vita autonoma dalla leggenda che lo avrebbe generato. La natura “virale” del meme è confermata da una recente “mutazione” del “Blue Whale Challenge”, reincarnatosi oggi come “Momo game”, che sarebbe diffuso via WhatsApp[49].
Purtroppo siti “clickbait” continuano a diffondere questo meme malefico, un’autentica sfida alle capacità della rete di combattere le fake news. Comportamento analogo mostrano alcuni quotidiani e periodici a diffusione nazionale, in Italia[50] e all’estero[51]. Sino ad oggi la sola BBC ha presentato una sintesi articolata e non scandalistica dell’argomento[52]. L’articolo è correttamente corredato dal rinvio a un servizio di supporto per coloro che manifestassero difficoltà o problemi sul piano psicologico.
È importante che gli esperti ed il personale impegnato nel supporto e il trattamento di soggetti fragili siano aggiornati sul tema delle notizie sul suicidio veicolate dai social media. Bisogna evitare di dare credibilità a notizie non verificate, senza trascurare l’allarme che tali notizie ingenerano nella popolazione. Soprattutto non vanno trascurati i segnali di malessere che emergano da ragazzi e adulti che esprimano intenzioni autolesive o accennino alla morte come soluzione ai propri problemi.Questi segnali possono manifestarsi anche attraverso la frequentazione di siti e forum dedicati al suicidio.
Se c’è una ricaduta positiva, l’unica, del polverone suscitato dal “Blue Whale Challenge” è l’attenzione che ha risvegliato sul problema del rischio suicidario tra i bambini e gli adolescenti, spesso sottovalutato.
La messa in atto di gesti autolesivi in questa fascia di età non va minimizzata. Coloro che compiono un tentativo di suicidio, anche con modalità inadeguate a dare la morte, possono provarci di nuovo, e statisticamente hanno una probabilità maggiore di morire per suicidio rispetto ai coetanei. Le condotte suicidarie sono favorite da un disturbo mentale in atto. Nei bambini e negli adolescenti, i disturbi mentali possono non manifestarsi con sintomi tipici, ma il loro impatto si rende evidente nel generale decadere dell’adattamento psicosociale. L’improvviso peggioramento nelle prestazioni scolastiche, o il rinchiudersi in sé stessi trascurando le amicizie abituali sono segnali da considerare con attenzione. L’uso di sostanze (le “droghe” dell’immaginario giornalistico) è un altro fattore di rischio per il suicidio, soprattutto nel caso di abuso di alcool. L’attacco al corpo, nella forma di disturbi alimentari o tramite pratiche di modificazione corporea estrema, come tatuaggi particolarmente visibili o piercing deturpanti, può celare un malessere profondo.
Chi intrattiene rapporti professionali con i minori e i soggetti fragili deve sempre avere a disposizione una lista di centri cui indirizzare le persone più a rischio ed i loro familiari per un consulto ed una eventuale presa in carico. Mai abbassare la guardia: “Il più grande inganno del diavolo è stato quello di far credere al mondo che lui non esiste”.
Si ringraziano Paolo Attivissimo, Stefano Totaro e Paolo Scocco per utili commenti su una versione iniziale di questa intervista.
La responsabilità di quanto scritto è interamente nostra.
Voci Bibliografiche
1 Comment
Grazie infinite per questo intervento, chiaro e ricco di riferimenti.