Il suicidio di un paziente: chi supporta i terapeuti?

Quando un paziente si suicida anche psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, infermieri e assistenti sociali diventano dei sopravvissuti. Dal momento che la malattia mentale è uno dei principali fattori di rischio, non è raro che un paziente muoia per suicidio. Oltre la metà degli psichiatri, nel corso della carriera, perde un paziente per suicidio. Il rischio di vivere questa esperienza aumenta se i pazienti soffrono di patologie gravi. Se consideriamo infine che la probabilità che un paziente tenti il suicidio è fino a 100 volte più alta, la quasi totalità degli psichiatri deve affrontare almeno uno di questi eventi nella sua carriera. Nonostante ciò, la letteratura sull’impatto emotivo e professionale di tali eventi sui medici e su altre figure professionali nel campo della salute è assai scarsa. Gli studi che hanno cercato di approfondire questo tema hanno evidenziato che il suicidio di un paziente rappresenta uno degli stress psicologici più importanti nella vita professionale di uno psichiatra, e che tale stress può avere conseguenze a lungo termine, sia personali sia sulla carriera professionale. L’impatto è particolarmente rilevante nei medici in formazione e nei giovani psichiatri.

La reazione dello psichiatra al suicidio o al tentativo di suicidio di un paziente è in gran parte sovrapponibile a quella dei familiari e amici. Tuttavia, la peculiarità del rapporto medico-paziente, che oltre agli aspetti affettivi e umani si basa su una relazione terapeutica, comporta conseguenze del tutto peculiari. Alla emozione correlata alla perdita relazionale si associa la perdita di autostima, il senso di fallimento professionale, e i dubbi sulle proprie competenze professionali.  Tale reazione comporta, nei casi più gravi, l’abbandono della carriera, con la richiesta di pensionamento anticipato o scelte di riorientamento professionale. Ma lo psichiatra o più in generale il curante può provare anche rabbia nei confronti dei superiori e dei colleghi (per la pressione sul lavoro, la sensazione di essere sotto esame e giudicato sulle proprie capacità professionali). In gran parte dei casi lo psichiatra, pur negando la rabbia verso il paziente, per un lungo periodo teme o addirittura rifiuta di trattare pazienti a rischio di suicidio. Anche la colpa è frequente – per non aver ricoverato il paziente, per le decisioni prese o non prese nel corso dell’ultima visita prima del suicidio – così come la paura, per la reazione dei colleghi o superiori, o per il timore di una azione legale da parte dei familiari. Le manifestazioni da stress sono più comuni ed intense tra i giovani medici e tra quelli di sesso femminile.

La reazione di lutto in seguito ad un suicidio può avere nello psichiatra effetti anche sulla vita privata: ansia, umore depresso, perdita di desiderio, irritabilità, disturbi del sonno e difficoltà relazionali in famiglia.

Gran parte di coloro che hanno vissuto l’esperienza del suicidio di un paziente trovano utile parlarne con i colleghi (confronto tra pari), nonostante ciò  i programmi di prevenzione terziaria (la prevenzione dedicata ai sopravvissuti) per terapeuti o altro personale sanitario sono estremamente rari. Altrettanto rari, e mai sostenuti da una prassi consolidata, sono i programmi di formazione teorico-esperienziale sulla gestione delle emozioni conseguenti al suicidio di un paziente.

Un’altra esperienza difficile per lo psichiatra è il confronto con i parenti del suicida, con i loro bisogni, con la loro rabbia e recriminazioni. Tuttavia è fondamentale  mantenere i contatti con la famiglia, incontrarla almeno due o tre volte per discutere le circostanze del suicidio, tutto ciò che si è fatto per cercare di evitarlo, ma anche i limiti delle cure; è importante infine approfondire cos’è il lutto, le sue possibili conseguenze e le eventuali fonti d’aiuto.

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