Disclaimer paradossale (a scapito di filologi): il significato della musica non è descrittivo, ma esclusivamente intrinseco. Questo racconto deriva da ciò che soleva dire il grande direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt (1929 – 2016) durante le prove della Quinta Sinfonia in do minore di Ludwig van Beethoven. Curiosamente, Harnoncourt è rinomato come uno degli interpreti più filologici dell’era direttoriale moderna.
FF. Fortissimo. Così erompe il primo tema della Quinta. Nikolaus Harnoncourt, camicia fuori dai pantaloni, occhi fuori dalle orbite, con il suo famoso sguardo ironico da coccodrillo, scuote i polsi: vuole comunicare ai suoi giovani orchestrali che si devono sentire incatenati, soggiogati da un regime il cui calmiere è il terrore. “Sapete,” dice “ripetere la stessa nota un tempo era vietato: il primo che lo chiese fu Monteverdi, nel 1500: la riteneva l’unica figura che potesse efficacemente rappresentare la rabbia”. E, diciamocelo, di rabbia e di angoscia, l’inizio di questa sinfonia ne è pieno. Rabbia per lo stato di interno dissenso, di prigionia, di impotenza; angoscia per il dolore che Beethoven ci veicola in altri momenti, come quando evoca la vera sofferenza fisica con una frase le cui distanze fra le note si fanno minime. “È come una tortura” fa Harnoncourt, e con due dita finge di tirare i capelli a una violinista. Oppure ancora, quando le frasi musicali si fanno lente e flebili “come i respiri di un bambino in fin di vita”, suggerisce il direttore-filologo. E poi “Zitti, non dovete farvi sentire, altrimenti vi porteranno in prigione… la vostra sofferenza può solo essere bisbigliata”.
Ma l’inizio di questo ineffabile tesoro di Beethoven non è solo tinte cupe e fosche. Perché Beethoven scrive in una forma ben precisa, la quale impone che di temi, di “idee tematiche” da sviluppare, non ce ne sia soltanto una. Devono essere due, per giunta legate matematicamente, indissolubilmente. Succede qualcos’altro durante tutto questo primo icastico movimento: un episodio più disteso, annunciato dai corni, e dolcemente ripreso dagli archi e da clarinetti e flauti in primis… Nikolaus è sicuro del suo significato, giacché conosce come finirà l’intera faccenda (è il direttore, e la partitura la sa a memoria): “Verrà un giorno in cui tutto questo finirà”… – al terrore e alle catene, fisiche e spirituali, dell’inizio, s’inanella, s’insinua, inevitabile, la speranza.
Dopo una breve pausa, in cui si accordano gli strumenti e Harnoncourt beve un bicchiere d’acqua, inizia la prova del secondo movimento. “È in una tonalità legata a un mondo spirituale, ecclesiastico,” ci racconta. Questo episodio è costruito su una struttura diversa del precedente: ha come caratteristica principale la variazione. E nella variazione, una frase che ritorna costante. “È come una preghiera,” le mani giunte, Harnoncourt, “…siamo disperati, vorremmo che tutto questo finisse… – e la chiosa “Per questo noi ti preghiamo; vorremmo che liberassero coloro che sono imprigionati – e ancora, per questo noi ti preghiamo…”. L’uomo sofferente trova qui un contatto con la propria interiorità, con la propria intima dimensione disposta ad accogliere quella speranza che era affiorata già dall’inizio – ricordate? È un desiderio accorato, piangente ma vitale, di uscire dal proprio stato di sofferenza. E anche, aggiungo io, un momento di raccogliere le forze, perché questa non è affatto una sinfonia che si limita alla dialettica fra l’essere prigionieri e la speranza di poter uscirne: ci prepariamo, con il penultimo movimento, alla rivoluzione.
“Immaginatevi, nel clima degli oppressi, due componenti: ci sono i giovani che mordono il freno, vogliono insorgere, vogliono agire subito. E ci sono gli adulti, saggi, che attendono il momento opportuno”: parole del Nostro, riguardo a questo breve movimento in forma di danza ancestrale, pieno di contrasti, di fermenti, di voglia di vivere che ancora rimane sotto soglia, in quel manto inquieto e teso che in musica si chiama modo minore, che caratterizza quasi tutta la sinfonia. Si sa: la vitalità è contagiosa e può essere contenuta fino ad un certo momento. E, dopo l’epico percorso che parte dal ferro delle catene per giungere ad una tensione quasi insopportabile di libertà, ecco che i timpani iniziano a farsi sentire, in sordina (“ci metta un sottile velo indiano” fa Nikolaus, “in modo che il suono delle mazzuole sia più incisivo, di soppiatto, minaccioso… poi, quando sarà il momento, lo sfilerà”). Assieme ai timpani, anche gli archi, in pianissimo, innescano un crescendo memorabile, lunghissimo: quello che abbiamo atteso sin dall’inizio, che porta a un’inondazione di luce senza pari nella storia della musica. Tutto si trasforma, si apre: persino l’organico strumentale della sinfonia si arricchisce con strumenti finora mai usati. “Devi immaginare di pungere il soffitto con il suono dell’ottavino… suonare così forte che dovresti prenderti un applauso personale” scherza Harnoncourt con la flautista, “mentre il controfagotto si occupa di sfondare il pavimento: siamo in uno spazio aperto”. La fine della Quinta è la riconquista di ciò che è sempre stato nostro e che avevamo perso, ma che non abbiamo mai, in fondo, realmente lasciato andare del tutto. Sono sicuro – queste sono mie parole, da direttore d’orchestra nel mio piccolo – e credo che Harnoncourt sarebbe d’accordo, che l’anelito alla libertà sia contagioso, non importa quale siano le tenebre da cui si trae, e che la gioia sia un sentimento rivoluzionario. E un po’ di sovversione fa bene all’anima.
(È disponibile in commercio la registrazione di una delle famose prove, spunto di questo articolo, di Harnoncourt con l’Orchestra di Graz nel 2007.)
Giacomo Rolma, direttore d’orchestra
(Anna)