Presentiamo per il nostro SOPRoxi Blog un articolo un po’ fuori dai canoni: un dialogo a distanza tra me (Valentina) e Paolo su Birdman (o L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), film di Alejandro Iñarritu del 2014, vincitore del premio Oscar come miglior film.
Girato in un unico piano-sequenza – tranne nel finale che ha lasciato aperte diverse domande, e su cui verterà maggiormente il nostro dialogo – racconta la storia di Riggan Thomson, attore amato dal pubblico per aver interpretato un famoso supereroe (Riggan è Michael Keaton, ex Batman…) che cerca di elevarsi agli occhi della critica, e resuscitare come artista, allestendo una piéce di Raymond Carver a Broadway.
Il film ci interessa anche perché mostra quanto e come possa essere diversa la percezione che ognuno di noi ha di una rappresentazione cinematografica di tematiche suicidarie.
VALENTINA: con la battuta di Edward Norton alla ragazza sul terrazzo (“Da qua non si muore eh”), mi è parso che il regista volesse trattare il tema del suicidio un po’ alla leggera, o in modo leggero.
PAOLO: Mmm, della scena della ragazza ti è sfuggito un dettaglio a mio avviso preoccupante…la voce di un uomo che dalla strada urla “dai buttati” (non sono certo delle parole ma il contenuto era più o meno questo). L’idea che chi pensa o minaccia il suicidio (come sembrava comunicare la ragazza seduta sul cornicione del terrazzo di un grattacielo) non lo faccia, al punto da provocarla, invitandola addirittura a farlo, a gettarsi giù, ben rappresenta un sentire comune per il quale persone in quelle condizioni, che si mostrano così, non solo non meritano di essere comprese/aiutate/curate, ma possono essere derise, provocate a dimostrare di volerlo fare davvero. Purtroppo ancora oggi questo è un pensiero diffuso, come è comune la reazione emotiva di rabbia e disprezzo scatenato da persone che tentano il suicidio in particolare quando questo appare poco violento e a bassa probabilità di esito fatale.
VALENTINA: Con il suicidio “sbagliato” del protagonista che si fa saltare solo il naso e nel finale in cui Iñarritu non fa capire se Riggan-Birdman si trasforma in uccello e vola via o davvero si butta dalla finestra per suicidarsi, ho avuto l’impressione che il suicidio sia anche un po’ preso in giro, e l’aspetto positivo è che il regista abbia avuto il coraggio di farlo.
PAOLO: Anche in questo caso non sono d’accordo, o meglio preferisco prendere le distanze da questa lettura “romantica”, quasi “eroica” di quel gesto. La gravità dello sfregio al volto (la devastazione del viso è una delle possibili conseguenze del tentativo di suicidio con arma da fuoco), con il quale Riggan perde la sua identità (il volto come rappresentazione della nostra unicità) viene sbrigativamente risolto con un intervento di chirurgia plastica e con la battuta del manager (“gli abbiamo fatto un naso nuovo! E se questo non gli piace gliene facciamo fare un altro!”). Lo sguardo sognante e sorridente di Sam (la figlia di Riggan) che in prima battuta guarda giù (si sarà suicidato?) e poi alzando gli occhi al cielo sorride, ci comunica il cambio di prospettiva e di reazione di fronte all’idea che il suicidio possa essere una “scelta di libertà” (il padre diventato un uccello, vola tra i grattacieli). Il suicidio del padre non lascia spazio alla disperazione, al dolore ma si colora subito di tenerezza di fronte alla possibilità che possa essere frutto di libero arbitrio. Possiamo considerare questo film “prosuicidio”? (o quanto meno schierato, più o meno volontariamente, nel dibattito sul diritto all’autodeterminazione). Non lo sappiamo, ma alcuni passaggi del film sono suggestivi e portano in quella direzione.
VALENTINA: Riguardo il finale, forse mi trovo d’accordo con chi dice che in realtà il protagonista si suicida sulla scena, e tutto il finale lui lo aveva immaginato prima di entrare in scena per l’ultima volta (il classico lieto fine hollywoodiano, con la moglie che torna, la recensione positiva, lui che riesce a volare e la figlia che lo guarda estasiato). Se accettassimo questa versione, comunque il risultato “prosuicidio”, come dici tu, non cambierebbe: il protagonista suicidandosi dimostrerebbe coerenza con quello che vuole di più nella vita (morire davvero sul palcoscenico, quindi impersonando fino alla fine il suo personaggio), e alcuni critici dicono che Riggan sia felice dopo che carica la pistola, perché ormai è libero – ha smesso di cercare riconoscimenti.
PAOLO: Certo, quello in scena può essere considerato un “suicidio mancato”, ma quale finale aveva immaginato Riggan? Voleva davvero morire? Sul palco, schiacciando il grilletto ha avuto un attimo di esitazione? Quell’ambivalenza che sembra accompagnare molti suicidi fino all’ultimo. Sulla presunta felicità di Riggan dopo aver preparato l’arma del suicidio, parlerei più di calma di chi pensa di aver deciso, di non avere altra scelta. Ciò che viene rappresentato dopo, mi fa venire in mente come a volte un gesto suicidario non sia “letto” in tutta la sua drammaticità, come disperato tentativo di liberarsi da un dolore psichico, o dall’incapacità di trovare senso alla vita. Il manager e la moglie non sembrano cogliere questa dramma, interessati più all’effetto che alle intenzioni del suo gesto.
VALENTINA: Esatto, alla ex moglie e al manager interessa di più il successo provocato dal gesto di Riggan, e non la sua tragedia interiore. Se prendiamo come “vera” la scena in ospedale, il manager prima si consola dicendo “Il mio migliore amico è vivo!” e subito dopo “… ed è clamorosamente diventato l’uomo del giorno!”. L’ex moglie cerca di portarlo con i piedi per terra (“si è fatto saltare via il naso”), senza neanche accennare al fatto che forse Riggan sia vivo per sbaglio. Le viene il dubbio e gli chiede “È stato un incidente…?” ma Riggan non risponde.
PAOLO: E infatti Riggan assiste a questo dialogo in silenzio: lui, protagonista di un gesto così drammatico ascolta senza commentare, senza dire la sua. Si percepisce una distanza, una estraniazione, un’incomunicabilità. Mi sono chiesto se i suoi interlocutori si fossero ribellati a quel gesto, se avessero colto la sua gravità e avessero aiutato Riggan (o lo avessero invitato a farsi aiutare) a spingersi oltre il suo essere attore, se avessero colto il suo essere uomo che non sa separasi-liberarsi dal suo passato di attore (il Birdman che era presente lungo tutto il film); in questo senso Riggan mi ricorda una persona in lutto (in questo caso da perdita di ruolo), in una fase di completo stallo quando non si riesce a lasciare andare quello che si è stato, per iniziare ad essere altro.
VALENTINA: Già. Mi aspettavo che dopo il risveglio in ospedale Birdman non ricomparisse, invece no. Riggan non si è liberato di lui, ma lo vede seduto (al gabinetto!) e non gli “parla”… vede allo specchio il suo naso rifatto come quello del personaggio, ma davanti alla finestra, dopo aver esclamato “Addio!”, il suo naso è normalissimo (la camera mostra la “realtà” esterna). La voce cavernosa di Birdman, che Riggan sente e con la quale confabula, ha attirato molto la mia attenzione: mi pare sia un effetto cinematografico per far sentire allo spettatore i suoi dialoghi interiori, che una specie di interlocutore che volgarmente chiameremmo “coscienza”. Secondo te, un suicida ha molte “voci” che parlano e controbattono nella sua testa – per dirla con De Filippo, “le voci di dentro” – una delle quali, purtroppo, alla fine prevale sulle altre?
PAOLO: Certo non è facile rappresentare cinematograficamente un dialogo interiore, la voce della “coscienza”. In alcuni passaggi del film mi è parso addirittura di cogliere una tale forza espressiva in quei “dialoghi” simile a ciò che sembra esperire una persona che soffre di allucinazioni uditive. Queste, in alcuni casi, possono addirittura “spingere” chi ne soffre al suicidio (“voci imperative” che invitano la persona in modo perentorio e continuo a suicidarsi).Ma la rappresentazione che ne fa Iñarritu può essere certamente interpretata come un dialogo interiore di Riggan che combatte la sua battaglia tra sentimenti di inadeguatezza e ineluttabilità, in un clima di perdita di speranza che toglie una prospettiva futura, ai quali contrappone la grandiosità del progetto teatrale che potrebbe riportarlo agli onori della critica teatrale, lontano quindi da una prospettiva di cambiamento, di evoluzione verso un nuovo modo di essere, di vivere il presente.
A Tony Drago, umanissimo supereroe, come il nostro Batman.
(Valentina_SOPRoxi)