“Le fate ignoranti”, film del 2001 del regista italo-turco Ferzan Özpetek, si apre con un gioco di seduzione tra un uomo e una donna dentro un museo. Riportiamo un loro scambio di battute:
Massimo – “Posso farle da guida?”
Antonia – “No.”
Massimo – “Così perde l’occasione di conoscere il segreto di ogni statua.”
Antonia – “Non lo voglio conoscere. Mi lasci in pace.”
L’uomo e la donna, cioè Massimo e Antonia, sono marito e moglie e stanno fingendo di non conoscersi. Anche se il rifiuto di Antonia è in fondo falso come lo è il corteggiamento, la risposta è già un piccolo indizio della mentalità della protagonista, interpretata da Margherita Buy: non vuole conoscere nessun segreto. Vuole essere lasciata in pace. Senza sapere che tra poco questa pace dovrà conquistarsela, prima attraversando il dolore e poi affrontando proprio un segreto che la costringerà a ricostruire da zero l’immagine del marito. Poco dopo, infatti, Massimo muore travolto da un’auto.
La protagonista cade in un lutto profondo, ma in un momento pratico – mettendo ordine tra le cose del marito – vede per caso una dedica per Massimo dietro un quadro. La firma è la tua fata ignorante e Antonia crede che lui avesse un’amante. Dopo questa rivelazione, spinta dalla rabbia per il tradimento, e forse ancor di più perché urge il “bisogno di sapere” – come lei stessa afferma – chi fosse davvero suo marito.
Solo che Massimo aveva un amante, senza apostrofo: le sue ricerche la portano fino a Michele, l’uomo che Massimo ha amato per sette anni.
Se la scoperta rompe del tutto il già precario equilibrio di Antonia, tuttavia l’atteggiamento di ostilità tra i due – quasi una lotta per il possesso della memoria di Massimo – cambierà. Sulle prime Michele vorrebbe soltanto dimenticare l’amato, respingere il dolore (“Non sono neanche potuto andare al suo funerale”) mentre Antonia oscilla ancora tra curiosità e shock, ma è consapevole di non poter più ignorare fatti e sentimenti. Il momento in cui Antonia trova il coraggio di avvicinare Michele sarà la svolta:
Michele: “Ascolta, lui non c’è più, né per te né per me!”
Antonia: “Non è così semplice.”
Appunto, non è così semplice. Perché Massimo tra loro c’è, eccome. Antonia lo sente, lo sente Michele. Entrambi i protagonisti scoprono che Massimo non smette di esistere: “Possiamo non parlarne, ignorarlo, ma è sempre qui con noi”, come finalmente ammette Michele a pranzo con Antonia. Quando entrambi abbassano la guardia per uscire dai ruoli tradizionali a cui erano relegati – moglie e amante – si avvicinano e (quasi?) s’innamorano.
L’elemento che vogliamo mettere a fuoco, tuttavia, non è la loro storia, quanto il sentiero interiore che Antonia è stata costretta a imboccare dopo la morte di Massimo. Assistiamo a una lenta evoluzione del personaggio di Margherita Buy: da moglie pacata, timida e iperprotetta nella sua casa dove tutto rimanda alla sicurezza di un matrimonio “normale”, a donna capace di porre e porsi domande.
Sono le domande che riesce a fare a Michele, più che le risposte, a condurla verso la profonda conoscenza prima del marito, e poi di se stessa.
Lo stesso sentiero imbocca chi deve affrontare il lutto, di qualunque genere. A maggior ragione, da sopravvissuti. Chiediamo ogni giorno ai nostri cari “Chi eravate davvero?” – e possiamo scoprirlo soltanto attraverso il dialogo con chi è rimasto, con chi li ha amati. Porgendo domande anche scomode.
Il dolore e la nostalgia ci rendono, spesso, muti. Eppure ogni volta che parliamo e sentiamo parlare dei nostri cari, loro sono lì, accanto a noi. E quel filo che sembrava spezzato dalla loro morte, si ricrea tra noi e loro per legarci nuovamente. Se ne va la paura di sapere chi erano, anche se la loro figura non corrisponderà alla persona che abbiamo conosciuto. Come succede ad Antonia, il desiderio di camminare un altro po’ insieme, e di condividere storie su di loro, si fa più forte del silenzio, della paura di commuoversi, e nel caso di noi sopravvissuti, più forte del tabù che circonda il come se ne siano andati.
Quella di Antonia lungo il film è, in fondo, una sfida ai suoi stessi silenzi. Non a caso è la poesia ad unire definitivamente i protagonisti. Entrambi amano Nazim Hikmet e Antonia recita proprio un componimento dedicato alle parole: “Erano tristi, amare / erano allegre, piene di speranza / erano coraggiose, eroiche / le tue parole / erano uomini.” (da Nazim Hikmet, Poesie d’amore. Milano, Mondadori, 2002, p. 19).
In un percorso lastricato di dubbi, domande e risposte mai definitive, le parole tra Antonia e Michele ricostruiscono, ridanno vita al loro caro e gettano le basi di un sentimento profondo tra i due.
Il finale rimane aperto, perché lo spettatore non sa lei se partirà per un lungo viaggio o meno. Probabilmente tornerà diversa, ma tornerà. S’intuisce, tuttavia, che le parole condivise con Michele l’hanno già salvata, e resa disponibile a conoscere “il segreto di ogni statua”, di ogni individuo.
(Valentina_SOPRoxi)