Frances aveva due anni quando il suo papà si è suicidato. Le scene tenere e affettuose della famiglia Cobain che fa il bagno nella vasca tutti insieme potrebbero essere quelle di una famiglia qualunque e invece sono scene, nomi, fatti e leggende sulle quali si è scritto e parlato a fiumi da allora fino ad oggi. Momenti che poi sono diventati pubblici, ma in fondo sono solo attimi e spezzoni di un collage dell’ (o dall’) inferno che solo dopo 21 anni è possibile riuscire a penetrare, solo quando la figlia decide di rimetterlo insieme…
Lo fa con il beneplacito della madre, per la prima volta d’accordo con la produzione e grazie ad un regista che si potrebbe definire quasi archeologo, come Brett Morgen. Il lavoro che ne viene fuori è una ricerca appassionata – Morgen ha lavorato negli archivi Cobain per 7 anni – che spazia dalle prime registrazioni su cassette dell’adolescente Cobain, ai manoscritti dei suoi diari, che all´improvviso prendono vita grazie alle ultime tecniche di animazione, alle voci raccolte dei compagni della band fino a quelle dei suoi genitori, fotografie, disegni, dipinti, found footage. Un universo che è come un caleidoscopio, in cui non è facile orientarsi, ma non è nemmeno facile concentrarsi. Le immagini si susseguono ad un ritmo serrato le une dopo le altre, a volte apparentemente senza filo logico, si passa da materiale visivo originale a trasposizioni animate accompagnate dalla voce originale del cantante, il tutto condito dalla musica graffiante dei Nirvana. Eppure, probabilmente grazie all’ordine cronologico che Morgen dà al suo racconto e sicuramente alla minuziosità scientifica della ricerca, si riesce ad intravedere un fil rouge nel mondo del giovane Kurt Cobain. Una passione sfrenata, una sensibilità unica ma anche una grande fragilità che si trasforma in autodistruzione già con l’uso delle prime droghe.
Quello che colpisce di questo film-documentario è la spietata sincerità con cui viene trattata una delle maggiori icone pop americane del secolo scorso, mitizzata, idolatrata e criticata da chiunque. Lo senti ad un tratto vicino, la senti come una storia tragica e umana di tutti i giorni, soltanto con intorno un giro di soldi molto, molto più grande di noi. Lo vedi nei volti scavati delle persone a lui più vicine che vengono intervistate e che per la prima volta parlano davanti ad una telecamera, lo si scorge dal tamburellare delle dita del padre sul bracciolo del divano e dal suo sguardo ancora guilty, colpevole di quel senso di colpa di chi resta, lo si percepisce nella voce della mamma, negli occhi ancora innamorati della sua prima girlfriend e nella forza della vedova Courtney Love. Con ancora addosso la corazza di chi deve sopravvivere alle critiche e ai pettegolezzi di mezzo mondo, sembra che Courtney si sia data una risposta, ma in fondo, alla domanda del regista se avesse voluto avere altri bambini con Kurt risponde accendendosi l’ennesima sigaretta nervosa mentre nel frattempo una coltre di tristezza le vela gli occhi… “Se avessimo avuto tempo certo…”.
Il montaggio è così veloce e mozzafiato che si ha l’impressione di seguire la storia dall’interno, di capire da dove veniva quell’urlo di dolore grunge che sembra scavare nelle budella del cantante e delle casse che riproducono il suono al momento. Quelle stesse budella che compaiono vibranti, viscide e anche un po’ schifose in diverse scene. “È come se Kurt Cobain avesse prodotto una delle migliori autobiografie audio-visuali del nostro tempo”, sottolinea il regista alla fine del film. E sottolinea anche che quell’intimità riuscita a raggiungere nel film è solo merito della partecipazione alla produzione della figlia di Cobain, Frances.
(Marina_SOPRoxi)
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Segnalo qui, a chi fosse interessato, anche un’altra lettura di Montage of Heck, del nostro amico Demetrio Paolin su Vibrisse:
https://vibrisse.wordpress.com/2015/06/22/kurt-cobain-montage-of-heck/