Il papà migliore del mondo (World’s Greatest Dad) non è un titolo granché promettente, farebbe pensare a una commedia zuccherosa; invece questo film è tutt’altro. Una black comedy acida interpretata nel 2009 da un Robin Williams commovente.
Lance Clayton è un insegnante, un single, un uomo gentile; tiene un corso di poesia (che gode di scarsissima popolarità tra gli studenti) nella stessa scuola frequentata dal figlio quindicenne che vive con lui. Lance è uno scrittore che non ha mai pubblicato nulla. La prima cosa che ci dice di sé è: “La mia più grande paura è di finire solo come un cane”. Ha sempre sognato di essere un autore famoso, di creare qualcosa di importante, ma tutti i suoi lavori sono stati puntualmente respinti dagli editori. Il figlio Kyle è l’adolescente più orrendo che si possa immaginare: scostante, cinico, nichilista, pigro, ignorante, omofobo, interessato soltanto alla masturbazione e alla pornografia. Non piace ai suoi compagni di scuola, e neppure il suo unico amico, Andrew (un ragazzino sensibile, che si rifugia da lui soprattutto per evitare la madre alcolizzata), è entusiasta di lui.
Lance si sforza sempre di stabilire un contatto con il figlio; invano, fino a quando non lo trova morto nella sua stanza, dove si è strangolato durante un gioco autoerotico.
Per risparmiare al figlio (e a se stesso) la vergogna di quella fine, Lance decide di inscenare il suicidio di Kyle: lo appende nella cabina armadio, scrive a suo nome una lettera d’addio e gliela mette in tasca.
Comincia così la mitizzazione di Kyle: il suicidio lo nobilita, lo trasforma in una creatura misteriosa, profonda, sensibile, gli fa guadagnare una incondizionata popolarità postuma. Le ragazze che in vita lo snobbavano, i ragazzi che lo sfottevano, il preside che voleva espellerlo: tutti ora sospirano di ammirazione e nostalgia. Soltanto l’amico Andrew continua a manifestare incredulità e stupore, non riconoscendo Kyle in quella lettera.
Le cose, per Lance, cominciano ad andare alla grande: la sua vita amorosa e professionale migliora vistosamente, e lui riesce finalmente a pubblicare un libro: il diario del figlio tormentato (che il figlio non aveva mai scritto: anche questo è opera del padre).
Lance si costruisce il figlio che voleva e che non ha mai avuto. Lo compatiscono e quasi lo invidiano per quel suo status di sopravvissuto. Finisce anche ospite di un talk show: l’unica scena autenticamente comica del film, in cui l’uomo, colpito dall’assurdità della propria finzione, cerca di mascherare con il pianto una risata irrefrenabile di fronte alla telecamera.
A ben guardare, nel lutto c’è quasi sempre una certa dose di ipocrisia, e alla verità si preferisce una sua versione più o meno edulcorata. Nell’ironia con cui è tratteggiato il personaggio di Lance non manca un elemento di compassione: capiamo che è un uomo buono, sentiamo che, dopo la tragedia patita, merita forse di conservare la memoria di un figlio degno di amore, un figlio che non ha avuto il tempo di diventare altro.
È paradossale come il lutto da suicidio assuma qui contorni addirittura desiderabili, cosa che sarebbe assolutamente impossibile per il genitore di un vero suicida. I ragazzi, invece: i compagni di scuola operano su Kyle una eroicizzazione che purtroppo si osserva nella realtà degli adolescenti, ed è estremamente pericolosa: è quella che può scatenare l’effetto Werther, il suicidio per imitazione.
La situazione, quindi, si fa così grottesca e assurda che comincia a precipitare sulle spalle di Lance. A prevalere sarà infine il bisogno di restituire la verità a sé e al figlio, e di “non finire solo come un cane”: proprio il coraggio della verità gli farà trovare degli amici veri.
Torna alla mente, per contrasto, La fortuna di Cookie, film di Robert Altman del 1999, dove in primo piano è invece lo stigma: i familiari di Cookie vorrebbero far passare il suo suicidio per omicidio, generando pericolosi equivoci e sospetti. Due opere che illustrano come non dovrebbe essere vissuto un suicidio (falso e glorificato in un caso, vero e negato-nascosto nell’altro). In entrambe le situazioni c’è in azione una negazione della libertà e della verità di una persona (la persona che muore, per propria volontà o meno), negazione che è violenta, anche se compiuta per difendersi dallo stigma di una morte considerata vergognosa o inaccettabile. Possiamo non capire, forse non capiremo mai, ma dobbiamo rispettare chi non può più parlare per sé: e dobbiamo farlo senza vergogna, senza riguardo per gli ipocriti. In questo senso il lutto può renderci più consapevoli, più forti.
(Anna_SOPRoxi)