Umberto D. è un film di cui tanto si è scritto e parlato dall’epoca della sua prima uscita nelle sale (1952), fino ad oggi. Già, perché in un’Italia sempre più vecchia all’anagrafe, il dramma della solitudine e della povertà dei nonni è, al contrario, più attuale che mai. È un film che aveva infastidito tutti, destra e sinistra (Andreotti in primis), per il suo pessimismo che sembrava portato all’estremo, fino a sfiorare il melodramma.
Umberto D., personaggio ispirato al padre del regista Vittorio De Sica e interpretato dal professor Carlo Battisti, potrebbe essere un nonno qualunque, uno di quelli che vediamo seduti sulle panchine in piazza o al bar, spesso con un cagnolino al fianco. Non starò qui a raccontare le vicissitudini di Umberto D., perché la trama del film “mostra” la sua vita (meglio: sopravvivenza) più che raccontare qualcosa a livello narrativo. La Roma del protagonista è una città non monumentale, priva di grandezza (o di grande bellezza) e i suoi abitanti si riadattano alla vita del dopoguerra, arrancando, specie economicamente, come possono. Umberto ha come unico compagno il cane Flike – interpretato dal cane-attore Napoleone – e della sua sorte si preoccupa, più di qualunque altra cosa. Lentamente, Umberto perde pezzi di dignità: riceve lo sfratto, va a mangiare alla mensa per i poveri, cerca di insegnare a Flike come tenere su il cappello per l’elemosina mentre lui rimane nascosto.
Quando sembra ormai deciso a suicidarsi, infatti, cerca una pensione per cani (al proprietario dice “Parto per un viaggio” – “Per quanto tempo?” – “…un po’” è la sua risposta tentennante), poi prova a regalarlo a una bambina nel parco, e quando anche questi tentativi di dare una sorte migliore a Flike falliscono, sentiamo la campanella del treno: vediamo Umberto uscire dall’inquadratura camminando all’indietro. De Sica inquadra solo il suo viso, con gli occhi di chi ha deciso di uscire di scena. Umberto pensa che sia meglio morire insieme al suo cane, che altrimenti soffrirebbe la fame. Ancora la campanella, veloce come il battito cardiaco, la sbarra del passaggio a livello, e il treno in arrivo.
Umberto vorrebbe saltare, ma Flike abbaia e scappa impaurito dalle sue braccia: è solo il vento a investire il protagonista, che dopo qualche secondo già cerca il suo cagnolino. Ironicamente, Umberto ha fallito anche nel suicidio.
Cosa succede nella mente del protagonista in quel momento? Questa “scena madre” è proprio quella che più ci interessa per capire chi è sopravvissuto a un tentativo di suicidio, o chi ha già voluto farlo ma ha poi deciso di andare avanti.
Umberto si preoccupa per il suo compagno. In quel momento non ha il tempo di pensare, solo di sentire, non c’è tempo per fare calcoli. Sente compassione per il suo cane, che da solo non potrebbe farcela. Gli manca già, ha appena il tempo di guardare il treno che si allontana. Quando Flike si fida di nuovo di lui e Umberto riesce a farlo giocare con una pigna, ecco che rivediamo il sorriso sul volto. Resterà ancora un po’ sulle sue gambe, grazie all’amore. Verso chi o cosa, poco importa. Il film si chiude, mentre l’orizzonte si apre.
(Valentina_SOPRoxi)