Sembra un paradosso, ma il teatro di prosa, che proprio nella parola trova il suo strumento chiave, è l’arte del non detto.
Quest’opera, scritta nel 1633 da John Ford (autore elisabettiano contemporaneo di William Shakespeare, meglio noto per aver scritto Peccato che sia una puttana), si svolge nella Sparta delle guerre Messeniche, incentrandosi sulla figura di Pentea, giovane donna che, dopo essere stata promessa all’uomo che ama, Orgilo, viene data in sposa ad un altro, Bassano, per volontà del fratello di lei, Itocle, ambizioso generale nemico di Orgilo. Ma non è la trama dell’opera a meritare clamoroso interesse (le faide tra due famiglie rivali che, per giochi di vendetta e ambizione, finiscono per causare la propria rovina compromettendo la stabilità stessa della città e determinando uno stravolgimento del microcosmo e del macrocosmo, non erano certo una novità per gli elizabethan dramas!).
Quello che più colpisce in Cuore infranto, invece, è lo spessore naturalistico che possiedono i personaggi e la complessità delle loro intenzioni e motivazioni profonde, che dopo più letture del testo appaiano ancora inespresse ed inesprimibili. Le parole messe in bocca a questi personaggi, le loro azioni, sono tentativi di dar voce al fermento irrazionale che li anima. Pentea si lascia morire di fame. Ma perché lo faccia, se per la disperazione indotta dall’essere moglie di un uomo “mostruoso” che non ama (Bassano), o per instillare lucidamente la follia omicida dell’uomo amato, Orgilo, nei confronti del fratello Itocle responsabile della sua disgrazia, non è dato saperlo; e questa indeterminazione non è certo dovuta a imperizia dell’autore.
Citando Giovanni Testori (Il ventre del teatro, 1968), “il vero teatro (la tragedia) non potrà mai essere rappresentazione criticata, ma sempre e solo verbalizzazione tentata”; e ancora: “condurre lo spettatore alla catarsi non significa condurlo alla soluzione, ma esattamente il contrario: significa condurlo alla constatazione dell’impossibilità d’ogni soluzione”. Impossibile, in questo testo, è definire cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia pazzia e cosa sia lucidità; impossibile è inoltre per i protagonisti trovare una soluzione alla sequela di eventi innescati ancora prima che la vicenda abbia inizio: alla morte di Pentea segue l’assassinio di Itocle per mano di Orgilo, che poi si consegna per farsi giustiziare; contestualmente muore di vecchiaia anche il re di Sparta, Amicla; infine Calanta, figlia del re, promessa sposa di Itocle, muore sul corpo dell’amato perché il suo cuore semplicemente si ferma (“Spezzati, cuore”, è la sua ultima battuta, penultima di tutta l’opera). Al lutto seguono sempre l’incredulità, la rabbia, il dolore, a cui questi personaggi rispondono con reazioni via via sempre più disfunzionali. Ancora da Testori: “Mi pare evidente che nella tragedia greca la staticità tenti continuamente di sprigionare da sé il massimo di moto (nei due sensi: dell’abisso e dell’altezza) e che, viceversa, nella tragedia elisabettiana la furia dei movimenti miri sempre a raggiungere la sua propria stasi; diciamo pure, la fermitudine della bara”. Insomma, per Ford la soluzione-non soluzione della vicenda è la morte di tutti i personaggi principali, con Bassano (personaggio avaro, paranoico e geloso ai limiti del delirante) che viene nominato Ministro della Casa Reale (colpo di scena non privo di ironia, probabilmente un’allusione al fatto che chi finisce per diventare leader non sempre è la persona più adeguata).
Un altro pregio di Ford è la capacità mimetica con cui riesce a descrivere i personaggi attraverso ciò che essi stessi dicono (o non dicono). Queste sono le prime battute con cui appare in scena Bassano, rivolgendosi al suo servitore:
BASSANO: Mura quella finestra prospiciente la strada: offre alla tentazione una visuale troppo libera, corteggiando le occhiate degli oziosi… Mura quella finestra!
SERVITORE: Ho capito, signore, chiamerò subito un muratore.
BASSANO: Già, qualche mascalzone, un mezzano di schiavi e di puttane, con messaggi segreti per qualche seduttore. Ma io… io ti taglio la gola, muso di cane, io ti sbudello al sospetto d’un foglio, d’un bigliettino indirizzato a mia moglie grosso metà di quanto basta a coprirti questa voglia sul naso.
Per molti anni la critica (tra cui T. S. Eliot) ha tendenzialmente sminuito il personaggio di Bassano, accusando Ford di aver peccato di cattivo gusto per averlo caratterizzato come il banale geloso e vecchio consorte della commedia. In realtà, le bizzarrie comportamentali di Bassano, la sua paranoia, la gelosia, il fatto che avesse reso la sua dimora una specie di sinistro antro, oltre ad aprire la possibilità ad una lettura in chiave comica, non peccano mai di manierismo, ma sono aderenti ad una resa “naturale” del personaggio, quasi a volerne descrivere scientificamente la psicopatologia.
Riporto qui sotto invece uno degli ultimi passi detti da Pentea, famoso per rappresentare uno dei vertici dell’abilità poetica di Ford:
“’Tis a fine deceit / To pass away in a dream; indeed I’ve slept / With mine eyes open a great while…there’s no hair / Sticks on my head but, like leaden plummet, / It sinks me to the grave: I must creep thither; / The journey is not long.”
“Quale sottile inganno
svanire durante un sogno! A lungo ho dormito,
dormito ad occhi aperti… Non ho un capello
infisso sulla testa che, come un filo di piombo,
non mi tiri giù nella fossa:
vi andrò strisciando; non è lunga la strada.”
A proposito della disperazione di Pentea, che nel corso dell’opera si acuisce, accompagnandosi all’insonnia, all’inappetenza e al delirio, va detto che Ford si professò estimatore del contemporaneo Robert Burton, autore di Anathomy of Melancholy (1621), e che tale trattato filosofico è stato per Ford un ausilio per costruire con un’attenzione quasi “clinica” i suoi personaggi melanconici.
Cuore infranto non è certo un’opera celebre. L’ultima messa in scena degna di nota è del 2015, in un produzione del Globe Theatre di Londra. Credo che la causa del suo scarso successo coincida paradossalmente con le ragioni per cui il testo debba essere più apprezzato, ovvero la sensibilità con cui Ford dà “carne” ai suoi personaggi: perché questa “carne” nella messa in scena risulti viva e animata dalle intenzioni razionali quanto irrazionali celate nelle parole di Ford, è necessario un abbandono da parte di attori e registi che poche volte si riesce a vedere. Ciò che richiede la tragedia elisabettiana, e Cuore spezzato in particolar modo, “è un’immersione totale che raggiunga l’urlo, la cecità e la mania” (Testori).
Per essere presentato a un pubblico, il testo di Ford, così carico di morte, va vissuto ed elaborato: come il dolore del lutto, che non deve essere fuggito né soppresso da contegno e reticenze, ma deve essere affrontato con lacrime, per poter essere accettato; solo così la messa in scena può accompagnare il pubblico a una possibile “catarsi” finale. È così che l’analisi fatta da Ford dell’umanità che lo circondava può giungere onestamente, lungi da tentativi di addomesticamento della creazione teatrale, allo spettatore contemporaneo.
Francesco Folena per Soproxi