Kevin Carter era nato a Johannesburg nel 1960.
Già nel 1961 era iniziata la campagna di sanzioni economiche contro il Sudafrica per la sua politica segregazionista, e nel 1973 l’apartheid fu dichiarato crimine contro l’umanità dalle Nazioni Unite.
Kevin cresceva in un quartiere bianco, ma il trattamento riservato ai neri nella sua città lo sconvolgeva profondamente e cominciò ben presto a impegnarsi in prima persona contro l’emarginazione.
Prima di scoprire la passione per la fotografia, aveva trascorso quattro anni nell’aviazione militare; dopo un periodo di forte depressione e un primo tentativo di suicidio, decise di cambiare strada, e dalle fotografie sportive passò a scattare immagini molto più drammatiche.
Lavorando per il Johannesburg Star, a metà degli anni Ottanta, vide molte cose tremende. C’era la guerra civile, i neri sospettati di connivenza coi bianchi venivano torturati e uccisi con uno pneumatico al collo, cosparso di benzina e bruciato: il cosidetto necklacing. Carter fu il primo a documentarlo in un suo articolo. Le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno; l’ala armata dell’African National Congress, nella sua lotta contro la segregazione, non andava tanto per il sottile.
Kevin era sconvolto da quello che vedeva accadere sotto i suoi occhi e davanti al suo obbiettivo, ma anche dalla propria lucidità e freddezza nell’atto di scattare quelle immagini. Cercava una ragione del suo agire, e la trovava nell’idea di dare testimonianza: quella non era un male, anzi, poteva costringere il mondo a vedere e a prendere atto.
Nel marzo del 1993 andò in Sudan per documentare la guerra civile e la carestia che aveva sconvolto il paese.
Vicino al villaggio di Ayod vide una bambina, che si era fermata a riposare mentre cercava di raggiungere un campo dell’ONU, e un avvoltoio atterrato lì vicino. Il fotografo attese una ventina di minuti che l’animale fosse abbastanza vicino, cercò l’angolatura migliore, scattò. E soltanto dopo scacciò l’avvoltoio, e si mise sotto un albero a fumare e a piangere. Senza sapere ancora che quell’immagine sarebbe entrata nella storia del fotogiornalismo e gli avrebbe assicurato il premio Pulitzer nel 1994.
L’immagine, di assoluta potenza visiva, fu pubblicata sul New York Times nel marzo del ’93, e da quel momento furono in molti ad accusarlo di omissione di soccorso.
Carter si suicidò a 33 anni, il 27 luglio del 1994.
Non avrebbe senso affermare che sia stata quella foto a ucciderlo; c’era la depressione, la tossicodipendenza, c’era la figlia che non vedeva quasi mai, c’erano gli scenari di violenza e dolore in cui si trovava costantemente immerso. La pressione mediatica era solo un tassello.
Queste le ultime parole che scrisse:
“Sono depresso…senza telefono…soldi per l’affitto…soldi per il mantenimento dei figli…soldi per i debiti…soldi !!!…Sono ossessionato dai ricordi vividi di omicidi e cadaveri, della rabbia e del dolore…di bambini che muoiono di fame o feriti, di pazzi dal grilletto facile, spesso membri della polizia, di carnefici assassini…sono andato a raggiungere Ken (il suo amico e collega Ken Oosterbroek, morto durante un reportage qualche mese prima) se sono abbastanza fortunato”.
Solo molti anni più tardi, nel 2011 grazie a un’inchiesta di El Mundo, si scoprì che quella bambina era in realtà un bambino: si chiamava Kong Nyong, e venne salvato dai medici del campo ONU, sopravvivendo quindi alla carestia per poi morire di malattia a soli 17 anni.
Ma è bello pensare che lui, l’avvoltoio e quel fotografo tormentato abbiano salvato più di qualche vita, grazie a un’immagine che ha cambiato la percezione della povertà in Africa e forse ha contribuito negli anni a ridurre notevolmente il numero di persone che soffrono la fame in quel paese.
Anna