Il 22 marzo scorso, nel pieno della pandemia da covid-19, ci hanno profondamente colpito le parole del nostro presidente della Repubblica sull’Italia decimata nella sua generazione anziana “punto di riferimento per i giovani e per gli affetti”. E ha colpito il suo tono solenne, le sue sono state parole forti e fuori dal coro dei più che rincorrevano in quei giorni i fantasmi paventati dai portavoce della medicina delle catastrofi ovvero della necessità di fornire una risposta sanitaria, in quella fase eccezionale della pandemia, che considerasse la limitatezza delle risorse non più in grado di far fronte alla richieste. Ecco quindi che l’Italia e l’Europa occidentale che conoscevamo da oltre mezzo secolo prosperità e pace e la protezione di un sistema sanitario in grado di offrire un’assistenza universale, sembravano svanite. Il presidente Mattarella ci ha fatto riflettere su questioni drammatiche: chi decide chi curare e chi no, e in definitiva chi aiutare a vivere e chi accompagnare alla morte, quando i letti i medici e gli infermieri negli ospedali non bastano? E sulla diffusa convinzione, espressa in modo più o meno esplicito, che la morte di così tanti anziani, per di più già malati, non fosse poi così importante.
Nei paesi occidentali il dibattito sull’eutanasia, ma anche sulla carenza di risorse da destinare all’assistenza e la tutela delle fasce della popolazione più svantaggiate è già acceso da anni ed è nato quando le condizioni non erano affatto eccezionali. E molto spesso alimentato da polemiche e da prese di posizione tra opposte fazioni ideologiche, politiche e culturali.
In questo clima non può che tornarci in mente la proposta indecente di Debray, che in un suo libro del 2005 ironicamente proponeva di attribuire un luogo, un focolare sopranazionale, un micro-stato di nome Bioland a l’intero popolo in diaspora, che non ha ancora coscienza di essere popolo, degli anziani, gli avi, i veterani, i senior. Perché, scrive Debray, sotto i nostri cieli ci si raggrinza sempre più tardi con nomi sempre più freschi. E la società si assolve edulcorando la propria nomenclatura.
Con ironia e sarcasmo, non privi di un pessimismo a tratti plumbeo, Debray si (ci) chiede: fino a che punto la società spingerà l’incoscienza medica, l’irresponsabilità economica? Come far arretrare la miseria e i maltrattamenti se contemporaneamente la morte continua ad allontanarsi? In un’epoca dove la devozione nei confronti della giovinezza avrebbe sbalordito tutti i nostri predecessori, che invecchiavano per valorizzarsi.
Per Debray, sono quattro i fattori da considerare: il passaggio da una società di trasmissione ad una società di comunicazione immediata, da una cultura del lavoro a una dell’ozio, da un’età di speranza a un’età d’impazienza e infine il passaggio dalla grafosfera alla videosfera.
Se queste sono le premesse, dovremo essere consapevoli, con Philippe Meirieu, che “finiamo sempre con l’uccidere, simbolicamente e fisicamente, colui al quale non riconosciamo diritto di cittadinanza in noi stessi e al quale, alla fine, non riconosciamo diritto di cittadinanza nel mondo”.
“Speravo che con la vecchiaia Dio sarebbe entrato nella mia vita, ma non è successo… Non lo biasimo, probabilmente io al suo posto avrei fatto lo stesso” affermava sconsolato lo sceriffo Tom Bell in “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen. E ancora, “Quello che provi tu non è una novità. Questo paese è duro con la gente. Non puoi fermare quello che sta arrivando. Non dipende tutto da te. È semplice vanità.”
Régis Debray, Fare a meno dei vecchi. Una proposta indecente. Traduzione di Alberto Folin. Marsilio Editori, Venezia 2005
Video tratto da Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men) film del 2007 diretto dai fratelli Coen, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy
Paolo