La vita di chi resta di Matteo B. Bianchi è un libro che scende nel territorio della sofferenza più indicibile e ingestibile che possa capitare a essere umano ovvero la perdita di una persona cara per suicidio.
Sappiamo che tecnicamente c’è un nome specifico che la scienza ha dato a chi vive quest’ordalia di emozioni e che fa parte dello stesso nome di SOPROXI: sopravvissuto.
Come il sopravvissuto a un cataclisma, come chi si salvò dai lager, la parola sopravvissuto rimanda alla portata soverchiante del dolore e delle sue conseguenze su chi resta ad affrontare un lutto unico per le modalità e le sensazioni di smarrimento e colpa che porta con sé. E riporta anche al rischio di enormi conseguenze traumatiche – incluso il rischio-vita – che toccano a chi lo deve attraversare.
So cosa significa essere un sopravvissuto, ma non parlerò di questo, per me è ancora un tema troppo vicino, grande, difficile per la condivisione che può fornire un breve post del web. Un tema che ha bisogno degli spazi, delle parole e della profondità di un libro e della distanza di un’elaborazione compiuta che per me è lontana.
Matteo B. Bianchi ha trovato parole che sono necessarie quanto lo è questo libro, che arriva a distanza di 22 anni dalla perdita subita.
Bianchi fa riemergere l’accaduto che lo precipita nell’abisso nelle primissime pagine per raccontare ai lettori il lungo cammino sulla confusa strada di un lutto che non prevede mai un totale superamento, ma – al massimo – una forma di accettazione.
Non un impossibile andare oltre, ma un passare attraverso per portare con sé questo zaino e, in qualche modo, uscire mutati da tutto quanto si è vissuto, in alcuni aspetti persino “accresciuti“.
Uso questa parola nel senso di dotati di spazi più grandi per il dolore, per l’empatia, per la comprensione della sofferenza, per la sopportazione, per il non-giudizio, spazi creati da qualcosa che mai si sarebbe immaginato né voluto vivere ma che pure esistono.
Questo libro è anche la storia dell’amore che ha unito Matteo a S., l’uomo con la cui morte inizia La vita di chi resta.
Si tratta di un sentimento che esce fuori dalle pagine, nonostante tutto, assolutamente vivo e diventa anche la celebrazione di un’esistenza, quella di S. che è assente eppure sempre presente, un uomo cui le pagine ridanno carne, respiro ed essenza.
Le parole riescono quindi, in qualche misura, nella magia di sconfiggere una fine tragica le cui circostanze rischiano sempre di schiacciare il ricordo di chi ci lascia e confinare la vittima solo al cono d’ombra di quel momento e a quell’esito fatale.
Il libro invece restituisce l’immagine piena della persona e della sua esistenza.
Matteo Bianchi racconta il suo percorso con frammenti di emozioni e una narrazione che se pure va dall’iniziale abisso alla lenta progressiva riemersione, segue una stesura solo in parte lineare come, del resto, frammentata è questa sofferenza che arriva a ondate, a pensieri contraddittori, a emozioni che mischiano rabbia, mancanza, stupore, orrore, desiderio, smarrimento, colpa, incredulità, ricerca impossibile di risposte, spiegazioni, razionalizzazioni.
L’autore insieme innesta riflessioni tecniche, frammenti di memoria, testimonianze di altri, ricordi di vita, confessioni personali e pareri professionali.
La vita di chi resta ha avuto un enorme successo, con 5 ristampe in 3 mesi e l’acquisizione dei diritti in tanti paesi del mondo, anche in luoghi distantissimi dal nostro, perché colma una serie di vuoti.
Affronta quel suicidio, che spesso è confinato a tabù, a viso aperto e senza infingimenti, non detti, senza sconti. Come ha detto lo stesso Bianchi nella presentazione di Genova: il suicidio è presentissimo nei libri e nei film, in continuazione. Ma è quasi sempre collocato in uno spazio “secondario”, un corollario narrativo che raramente riguarda i protagonisti, una forca caudina da superare velocemente, magari semplificando il tutto in logiche di causa/effetto molto brutali per occuparsi della restante narrazione.
Qui invece è centrale come centrale è appunto La vita di chi resta, qualcosa che – di nuovo – raramente trova spazio nelle narrazioni.
(Tra i pochi che lo hanno raccontato bene, la serie tv The bear).
Perché è complesso e forse anche poco epico parlare di chi, non visto dal mondo e straziato, cerca interiormente un modo per esistere ancora, per assolversi e assolvere, per mantenere un senso e dare un ordine alla propria vita che è rimasta spaccata in due ma ancora esiste. E per trovarne uno a quella di chi l’ha perduta.
Ma è una lotta ugualmente titanica.
Leggere La vita di chi resta aiuta anche a comprendere per chi non lo ha vissuto o lo vede da fuori, cosa significa sopravvivere al suicidio di un caro e suggerisce come poter stare vicino a chi affronta questo trauma: con l’ascolto, senza cercare di offrire soluzioni che non ci possono essere, anche quando queste sono richieste, con il coraggio di chiedere senza dare consigli, senza fare paragoni.
Ma, attenzione, questo è anche un libro di speranza, quella che io ho trovato leggendolo nel momento peggiore della mia vita.
Questo è possibile perché – a differenza dei pochissimi altri testi sul tema, anche importanti, anche in altre lingue – qui c’è in più il tempo, in mezzo.
Ci sono stati i giorni diventati mesi e poi anni.
Questi hanno scavato nella pietra del dolore e permesso un’elaborazione, una riflessione ex post, una presa di distanza che consente di dare ordine alla confusione interiore e far vedere una strada a chi, all’inizio, non la può scorgere.
Affinché – come scrive Bianchi – quel dolore che all’inizio è un faro puntato addosso che illumina tutto e acceca diventi una luce che sì, vediamo sempre, ma con cui possiamo convivere.
E che può, perfino, in qualche modo, illuminare la strada che ci rimane.
2 Comments
Grazie Riccardo.
Lo leggerò.
È stato strano arrivare proprio qui e sono rimasta incollata sulle tue parole, lette e rilette.
Ora so che esiste un libro vero su questo.
Molto ben scritto e molto gradevole nella lettura malgrado il tema. Bravo riccardo! ( bellissima la sezione ❤️)