Già, come? Me lo sono chiesto subito.
Decenni di gobba e pessimismo cosmico cancellati dal sottotitolo di L’arte di essere fragili, di Alessandro D’Avenia. La copertina quasi neonatale (una farfalla posata sulla luna), insieme al titolo da manuale di aiuto aiuto con il coinvolgimento di Leopardi, hanno fatto il resto per incuriosirmi.
Il “prof 2.0” non concepisce questo libro come critica letteraria, ma come una raccolta di diverse lettere a Leopardi, una corrispondenza tra anime a “distanza di migliaia di ore”. Sono lettere dialoganti, infatti D’Avenia gli si rivolge con il tu, come a un amico intimo, commentando diverse frasi dai Pensieri, dallo Zibaldone, e dalle lettere a Pietro Giordani.
Divisa per età della vita – infanzia, adolescenza, maturità, riparare, morire – l’Arte si dipana seguendo anche il filo delle poesie leopardiane più care all’autore, che poi sono le stesse che ogni studente della scuola italiana ha incontrato almeno una volta. Se questo incontro sia stato illuminante o noioso, titanico o malinconico, originale o stereotipato (vedi gobba qui all’inizio), sarà dipeso da chi Leopardi ce l’ha presentato. Dai nostri prof di lettere.
D’Avenia, con una scrittura cantilenante, (ri)legge L’Infinito, A Silvia, il Canto di un pastore errante, A se stesso, La ginestra, e brani delle Operette morali, in ordine di composizione, attraversando l’intero percorso della vita del poeta, ma in realtà quello di tutti gli esseri umani.
Legge l’infanzia come presenza dell’infinito, l’adolescenza – a cui è riservata la parte più lunga del libro – come momento del “rapimento”, della passione, passando dalla maturità che ci riserva la morte delle illusioni, fino alla necessaria riparazione, la vera “arte” di essere fragili, ripararsi per riparare gli altri, e viceversa. Secondo D’Avenia, Leopardi fu un cacciatore di bellezza, che non si arrese mai alle contingenze che lo hanno fatto leggere ingiustamente come lo “sfigato” della poesia italiana:
Riuscireste voi a trasformare in canto il dolore della vita, i vostri fallimenti, la vostra inadeguatezza?
A nutrirvi del vostro destino, più o meno fortunato che sia, per farne un capolavoro immortale?
Leopardi parla col cuore e al nostro cuore, e lo fa con semplicità, qui sta il suo segreto. Parla della bellezza quotidiana, da ricercare incessantemente, quella delle stelle, della luna, di un orizzonte, e al contempo del dolore quotidiano, insieme ai suoi grandi interrogativi (poeta delle domande senza risposta, lo chiama l’autore): io che sono? vale la pena vivere? dove tende questo vagar mio breve?
D’Avenia invece dà le sue personali risposte negli ultimi capitoli dedicati alla fragilità, condizione guardata con sospetto dalla società contemporanea, che ci vorrebbe perfetti, belli, felici, come fossimo sempre nel dí di festa.
Sono gli amici che ci restituiscono la nostra immagine più vera,
perchè devono persino difenderci da noi stessi e dalle nostre smanie di distruzione, quando ci sembra che creare sia impossibile, che il compimento sia perduto per sempre, che il nulla ci meriti.
Fu l’amicizia, quella di Antonio Ranieri, a salvare la fragilità leopardiana, tanto da diventare l’unica ragion d’essere dei suoi ultimi anni, quando il male agli occhi e il rifiuto della donna che amava inasprirono il dolore. Leopardi, da grande studioso della vita, non poteva non toccare il tema del suicidio, che affronta in uno dei testi meglio ragionati e salvifici sul tabù di cui discutiamo nel nostro blog: il Dialogo di Plotino e di Porfirio (dalle Operette morali).
Porfirio ha una “mala intenzione contro se stesso”, e l’amico Plotino l’ha inteso da sguardi e parole, allora gli si rivolge esplicitamente anche se sa di fargli “dispiacere a muoverti questo discorso”. Come si sente Porfirio? Glielo confessa, anche se avrebbe voluto tenerlo segreto:
[…] questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore o spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata.
Forse agli inizi dell’Ottocento non era stato coniato il termine “depressione”, eppure sembra proprio questo il male descritto dal personaggio. Il tedio è commentato varie volte nell’Arte di D’Avenia, che l’ha scritta – lo rivela nel finale – anche perché una ragazza, in una lettera, gli aveva rivelato il proposito di suicidarsi. Il prof la convince ad aspettare l’uscita del libro. Lei risponde che aspetterà…
Una situazione non troppo dissimile dal Dialogo dei due amici, che argomentano se il suicidio sia un fatto “contro natura” e se sia “lecito”, fin quando Plotino afferma che non c’è fastidio della vita, disperazione, senso della nullità delle cose, della solitudine dell’uomo, odio del mondo e di sé medesimo che possa durare assai.
D’Avenia non cita tutto l’appello finale di Plotino al suo più caro amico, ma lo riportiamo qui per intero, perché la poesia, i libri, sì, possono salvare la vita. Soprattutto se ci aprono gli occhi sulla bellezza che cresce, testarda, anche nel deserto dell’anima.
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.
Per Anna e Marina,
cacciatrici di ginestre.
Autore: Alessandro D’Avenia
Editore: Mondadori
Pagine: 216
Genere: Saggistica, narrativa
Anno pubblicazione: 2016
(Valentina_SOPRoxi)