David Grossman, scrittore israeliano, perde il figlio Uri in guerra nel 2006, e costruisce un’opera che non si presta a etichette.
Qualcuno la considera un romanzo in versi, per la punteggiatura e il ritmo spezzato, qualcuno una sorta di tragedia greca con il suo protagonista, l’“Uomo che cammina”, attorniato da un coro di personaggi accomunati dalla stessa tragedia – quella della morte di un figlio o di una figlia.
Per me, qualunque sia il suo genere narrativo, recensire quest’opera è una sfida, come deve essere stato, per Grossman, concepirla. Mi piace parlarne come una grande “anatomia poetica del dolore”.
Nella prima scena, l’Uomo e la Donna questionano il loro lungo silenzio:
UOMO
Una dopo l’altra
si spensero
le parole, e fummo
come una casa
nella quale a poco a poco si spengono
tutte le luci,
finché cade
una fosca quiete. […]
DONNA
C’era una sorta di miracolo
nel nostro silenzio,
un qualche mistero nella quiete
nella quale fummo inghiottiti insieme a lui,
muti eravamo
come lui, parlavamo
la sua lingua.
Perché che hanno a che fare le parole…
Che ha a che fare la grancassa
delle parole
con la sua morte?!
Cominciamo dalla trama, per quanto filiforme: un uomo, dopo cinque anni di silenzio, si alza da tavola e dice alla sua donna che andrà “Da lui, laggiù”.
Laggiù potrebbe essere l’Ade, gli Inferi, il luogo da cui nessuno è mai tornato vivo. Tuttavia l’Uomo, novello Ulisse, inizia a camminare in circolo, non a scendere. Perché circolare è il tempo di chi (ri)vive la morte dentro di sé, senza direzione, solo ripetendo nella propria mente gli stessi istanti, le stesse frasi.
La sua donna non lo segue, ma lo Scriba delle cronache cittadine ne descrive ogni atto, ogni parola (il Duca gli ha ordinato di “camminare giorno e notte per le strade e di annotare le storie degli abitanti della città a proposito dei loro figli”). Attraverso le sue annotazioni veniamo a conoscenza del lutto – sempre diverso ma in fondo sempre uguale – di figure emblematiche di una città priva di una reale collocazione geografica, anch’essa “caduta fuori dal tempo”.
Sono il Duca, la Donna nella rete, il Vecchio maestro di aritmetica, la Levatrice, il Ciabattino, che, vedendo l’Uomo camminare in circoli sempre più ampi, prima intorno alla sua casa, poi intorno alla città, decidono di unirsi a lui e, semplicemente, camminare.
È questo il gesto che inizierà a scrostare il loro lutto silenzioso: usciranno di casa, e prima rimetteranno in moto i piedi, per poi far ripartire il meccanismo inceppato delle labbra, della parola, grazie alla condivisione delle lore storie, del dialogo – anzi, purtroppo, monologo – con i figli, in un sussurro perpetuo lungo uno stato di dormiveglia, fatto di echi, anafore, domande, aneddoti e mozziconi di frasi. L’unica figura che si distacca dai genitori andanti è il Centauro, figura burbera e circondata di mistero di uomo mezzo scrittore mezzo scrivania, bloccato sia nel movimento che nella scrittura, che alcuni critici hanno voluto interpretare come l’alter ego di Grossman, poiché, afferma il personaggio: “Non riesco a capire qualcosa finché non la scrivo”.
Lungo il romanzo, la marcia dei genitori viandanti non è mai accompagnata da parole che risuonano a un volume da “grancassa”, perché ci sembra che Grossman crei piuttosto un sordo ronzio, sommesso e lacerante.
Alla fine non apparirà una porta, passaggio verso quel laggiù tanto sperato, ma un muro, soglia che non potrà essere varcata, ma in cui ognuno di loro vedrà, riconoscerà, forse inventerà un’ombra, quel volto caro e familiare rivisto per un istante, e imparerà che il laggiù non esiste.
Perché esiste un quassù, di cui noi e loro, i nostri morti, fanno parte. Ne fanno parte perché sono le nostre vite stesse a testimoniare il loro passaggio.E se non basta vivere per collegare i due Mondi – dei “ricordanti” e dei “ricordati” – allora la storia di Grossman ci invita a far uscire da noi i ricordi per unirci al coro dei genitori superstiti.
Cosa è, infatti, il ricordo? Forse l’opposto del silenzio. Ci può essere utile l’etimologia del verbo: dal latino recordāri, derivato di cŏr, cŏrdis ‘cuore’. Gli antichi consideravano il cuore la sede della memoria: quindi ricordare vuol dire “riportare al cuore”. A questo proposito cito un brano del dialogo immaginario del protagonista:
UOMO CHE CAMMINA
Posso chiederti una cosa?
gli dico –
vorrei imparare a separare
i ricordi
dal dolore. O per lo meno una parte di essi,
per quanto è possibile, perché non tutto il passato
sia così intriso di dolore.
In questo modo potrei ricordarti ancora di più,
capisci? Non avrò paura ogni volta
del bruciore dei ricordi.
Tra le tante suggestioni di quest’opera, il concepire i ricordi “ripuliti” dal dolore e condivisi, è uno dei possibili cammini da intraprendere nella “lotta contro la distruzione, la cancellazione, l’oblio”.
(Valentina_SOPRoxi)
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Valentina, si era suggerito che per illustrare “l’uomo che cammina” sarebbe stato perfetto il bronzo di Alberto Giacometti che si chiama proprio così, L’Homme qui marche. Lo si può vedere qui:
https://lapromenademag.files.wordpress.com/2011/03/4-l_homme-qui-marche-di-alberto-giacometti-in-incanto-da-sothebys.jpg?w=595