“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e quali li ho letti […]”.
Inizia così il monologo di Hanťa, protagonista di Una solitudine troppo rumorosa, pubblicato da Einaudi nel 1968, inclassificabile libro di Bohumil Hrabal, scrittore ceco (Brno 1914 – Praga 1997) che ha attraversato il Novecento con una vena surrealista e ironica ben diversa da quella del suo amato e più conosciuto concittadino Franz Kafka. Hrabal racconta, attraverso un flusso di pensieri ininterrotto e anaforico dell’operaio Hanťa, una storia d’amore con i libri: onnipresenti compagni di vita da distruggere alla pressa meccanica – sequestrati dal regime comunista – ma da confezionare con tenerezza, salvandone una frase, “come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore”, per ricrearli sotto forma di parallelepipedi-gioiello. Hanťa schiaccia e fonde Gesù e Lao-Tze, Kant e Hegel, insieme a mosche e topolini e carta sporca, come se nella sua pressa (anima, direi) la purezza e il luridume, la bellezza e lo schifo, diventassero tutt’uno, fino a conciliarsi.
Hanťa divaga, ripete citazioni lette come una nenia, mentre lavora ricorda la sua giovinezza, le passeggiate per Praga con la sua zingarella, gli innumerevoli boccali di birra tracannati per resistere alla fatica del suo lavoro “da sottosuolo”, lo zio ferroviere in pensione che si fa ricostruire un binario in casa… Da questi ricordi emana l’atmosfera della Praga degli anni Sessanta, crocevia della Storia e al contempo di storie intime, città che in quest’opera non ha nulla di magico. A un certo punto la Storia entra nella storia di Hanťa, sotto forma di modernità. Cosa accade quando il protagonista sta per andare in pensione (e con i risparmi si porterebbe la sua pressa a casa), il suo capo gli comunica che lavorerà in un altro stabilimento a imballare carta linda, con una pressa idraulica? “D’un tratto col corpo e con l’anima compresi che non sarei mai più stato capace di adattarmi, che ero in quella stessa situazione dei monaci di alcuni monasteri i quali, quando seppero che Copernico aveva scoperto leggi cosmiche diverse da quelle che valevano fino allora, che la terra non era il centro del mondo, ma al contrario, allora quei monaci avevano commesso suicidi collettivi, perché non riuscivano a immaginare un mondo diverso da quello nel quale e per il quale erano vissuti fino ad allora”. Il lettore intuisce che ormai, se non può più rifugiarsi in Shaskespeare o Schiller, se perde il suo spazio personale, per Hanťa la via d’uscita da un mondo insensato è quella di entrare nella pressa. Il meraviglioso e orrido frastuono dei libri – cos’altro se non voci altrui stampate su carta? – si fonderà con la sua carne, a sugello della sua love story: “Ogni oggetto amato è il centro del Paradiso terrestre, ed io, piuttosto che imballare carta linda, allora io come Seneca, come Socrate, io scelgo la mia pressa, nel mio magazzino, la mia caduta, che è ascesa […]”. È probabile che anche Hrabal abbia scelto come il protagonista la sua caduta, sporgendosi e cadendo dal quinto piano dell’ospedale dov’era ricoverato – secondo gli infermieri per dar da mangiare ai colombi, secondo molti altri per suicidarsi. Mi piace pensare a lui e a Mario Monicelli, morto nelle stesse circostanze, così, con le parole che chiudono il romanzo: “Sedevo sulla panchina, sorridevo candidamente, non ricordavo nulla, non vedevo nulla, non udivo nulla, perché ormai ero forse già nel cuore del Paradiso terrestre”.
(Valentina_SOPRoxi)