L’eco del paradiso è uscito in Giappone nel 1989 ma la versione italiana è disponibile solo dal 2015.
Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, il «K» voce narrante del romanzo, racconta di una donna che inizialmente pare quasi finta: Kuraki Marie è una bellezza perfetta, le lunghe ciglia, le labbra sensuali e dipinte di rosso vivo che le danno un’aria alla Betty Boop, il sorriso aperto e cordiale. È una donna attiva, generosa, onesta e schietta anche nella sua sensualità senza tabù. È un’intellettuale, una studiosa di letteratura esperta di Flannery O’Connor che, diversamente da lei, è una fervente cattolica.
K racconta, partendo dalla fine, la storia di Marie attingendo ai propri ricordi ma anche, in larga parte, a lettere (della stessa Marie, del suo ex marito) e testimonianze (degli amici di lei). Entrambi hanno figli segnati da una disabilità cognitiva: ragazzi dolci e innocenti che amano la musica e che grazie ad essa stringono amicizia. Marie si chiede se «in qualche modo noi stessi non ci aggrappiamo o addirittura dipendiamo dall’innocenza dei nostri figli». Dopo il divorzio, la donna vive con l’anziana madre e il figlio Mūsan mentre l’altro figlio «normale», Michio, sta con il padre. La famiglia verrà sconvolta da una tragedia orribile, di cui K viene a conoscenza attraverso una lunga lettera dell’ex marito di Marie: in seguito a un incidente, Michio perde l’uso delle gambe e non molto tempo dopo convince Mūsan a suicidarsi insieme a lui.
La scrittura di Kenzaburō Ōe è chiara, fotografica: dice con precisione tutto il dicibile e lo aiuta nell’impresa una schiera di grandi autori passati e presenti. Nelle pagine del romanzo si affacciano Dante, sant’Agostino, Coleridge, Dostoevskij, la O’Connor, Yeats, Vargas Llosa, Shakespeare, Balzac, Plutarco. E c’è la musica, tanta musica. Pare che K voglia dirci: tutto è già accaduto, tutto è già stato raccontato, anche questa storia, ma la letteratura può esserci di guida nel vivere il dolore e trasformarlo in ricerca e in azione.
Le domande si affollano. Il padre dei due fratelli si chiede: cos’era quella forza scatenante […] che ha portato via i miei due figli da questo mondo? Era odio? Oppure amore? E Marie descrive il rimpianto, il dolore e il rimorso come un «albero del veleno» che ha messo radici tra lei e l’ex marito.
Marie è in guerra con Dio, un Dio che non conosce, che ha intravisto nelle pagine di Flannery O’Connor e che ora cerca, anche rabbiosamente, in sé: «Mi ha portato via i miei due poveri figli […] Ha lasciato accadere tutto come se fossero stati loro a decidere di morire…» E se i due fratelli hanno subito il Male, in realtà «nessuno lo ha patito come me, la loro madre, sopravvissuta e costretta a soffrire».
L’opera che Marie intraprende è, come dice lei stessa, una vendetta contro il male. La sua ricerca spirituale la porta a unirsi a una specie di setta, il Centro Collettivo, guidata da un «Fratello Superiore» che non spegnerà il suo scetticismo, eppure lei terrà sermoni per loro, li accompagnerà in America, riuscirà a convincere le sue compagne a rinunciare al suicidio di massa dopo la morte del loro Fratello e arriverà fino a un remoto villaggio messicano, sempre dedicandosi al servizio della comunità (lavoro fisico, fatica concreta ma anche assistenza alle donne e ai bambini) dopo aver rinunciato totalmente anche all’ultima cosa che ancora le desse piacere, il sesso, e trasformandosi infine agli occhi degli abitanti del posto in una vera e propria santa.
Il tormento di Marie non finisce mai, è quasi programmatico: «Non ho intenzione di fare null’altro che seguitare a tormentarmi fino al giorno della mia morte, riflettendo su ciò che mi è successo». Naturalmente pensa anche al suicidio per sé, ma ci rinuncia perché se l’avesse messo in atto «tutte le immagini dei miei figli presenti in questa mia testa inutile si sarebbero estinte in un solo istante, per sempre».
Lungo il suo accidentato cammino, Marie riesce perfino a intravedere un possibile paradiso, la felicità suprema verso la quale immagina che i suoi figli abbiano spiccato il balzo. Ma l’abisso che separa il sensibile dall’intelligibile, ciò che ella prova e ciò che non comprende in relazione a quel duplice suicidio, resta incolmabile. Tanto intenso e continuato è lo sforzo di capire che, dice Marie: «…mi sono resa conto che stavo riconsiderando quell’evento come se si trattasse di un romanzo […] e stavo tentando di interpretarlo in un modo nuovo».
Molte cose accadono in questo libro, che non è solo una lunga riflessione sul dolore e sulla fede: è una trama densa e complessa di fatti piccoli e grandi, quotidiani e straordinari, che vanno a comporre un ritratto di donna a un tempo dettagliato e sfuggente, perché è il ritratto di un’anima di fronte al mistero. Più che rispondere alle domande, ne suscita infinite.
Per Marie sarà un trionfo arrivare naturalmente, grazie alla malattia, alla fine della sua vita.
«C’è sempre tempo per morire, non c’è ragione di farlo in fretta e furia, bisogna concedersi il tempo necessario, se possibile. Ecco, è questa la preghiera che rivolgo a tutte voi dal profondo del mio cuore.»
(Anna_SOPRoxi)