Lacrime più copiose gli velarono gli occhi e nella penombra gli parve di vedere la figura di un giovane in piedi, sotto un albero grondante di pioggia. Altre figure gli erano vicine. La sua anima aveva avvicinato la regione in cui dimora la folla sterminata dei morti. Ne era cosciente, ma non riusciva a coglierla, quella loro effimera e tremolante esistenza. La sua stessa identità si stava smarrendo in un mondo grigio e impalpabile, e lo stesso mondo materiale, il mondo sul quale quei morti avevano vissuto e procreato si andava dissolvendo e rimpicciolendo.
Un lieve battito sul vetro lo fece voltare verso la finestra. Aveva ripreso a nevicare. Restò a osservare, assonnato, i fiocchi di neve, argentei e scuri, che scendevano obliquamente davanti al lampione. Era giunto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava su tutta l’Irlanda. La neve cadeva in ogni parte della bruna pianura centrale, sulle colline brulle, scendeva piano sulla palude di Allen e, più a occidente, calava lieve sulle cupe onde tumultuanti dello Shannon. E cadeva anche su tutto il solitario cimitero di campagna, là in cima alla collina dove era sepolto Michael Furey.
S’ammucchiava sulle croci contorte e sulle pietre tombali, sulle punte del piccolo cancello, sui cespugli brulli. E l’anima gli si velava a poco a poco mentre ascoltava la neve che calava lieve su tutto l’universo, che calava lieve, come a segnare la loro ultima ora, su tutti i vivi ed i morti.
James Joyce, I morti, in Gente di Dublino, traduzione di di Marco Papi ed Emilio Tadini, Garzanti, 1978
Scena finale tratta dal film The Dead – Gente di Dublino, 1987 regia di John Huston
Immagine © National Library of Ireland & IVRLA
(SOPRoxi)