Oggi con piacere ospitiamo lo scrittore Giacomo Verri (autore di Partigiano Inverno, intenso e originale romanzo sulla Resistenza edito da Nutrimenti, finalista al premio Italo Calvino 2011, e di Racconti partigiani, che si potranno trovare in allegato al Sole 24 Ore di domenica 24 aprile) che ci parla de Il defunto odiava i pettegolezzi, straordinario libro-inchiesta di Serena Vitale sul suicidio di Vladimir Majakovskij, in questa recensione già pubblicata su Satisfiction e sul blog di Verri (https://giacomoverri.wordpress.com).
La pallida e magra ventiduenne Veronika Polonskaja è seduta in una poltrona dello studio di Vladimir Majakovskij, un appartamento di pochi metri quadri in una kommunalka al numero tre di passaggio Lubjanskij. Inginocchiato ai piedi di lei, su un tappeto, sta il poeta massimo della rivoluzione. È il 14 aprile del 1930, lunedì. Sono all’incirca le dieci del mattino. Di lì a pochi minuti, un colpo di rivoltella, uno sparo a bruciapelo che perfora la camicia di Majakovskij tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, il cadavere enorme disteso sul pavimento, sangue, gli occhi morti di un uomo disperato.
Pochi istanti più tardi, alla stanza del suicida accorrono molte persone: una infermiera (con un asciugamano bagnato, una siringa e una fiala di canfora), i vicini di casa, l’impresario e organizzatore delle serate del poeta, Pavel Lavut, l’ispettore di polizia Kurmelev, e via via una serie di pezzi grossi della polizia politica e del controspionaggio sovietico: “anche da morto Majakovskij è ingombrante”. Ma è un pezzo da novanta in mezzo ad altri pezzi da novanta: “l’OGPU [la polizia segreta del regime, in origine la Čeka] poteva tenere d’occhio la crème dei letterati e degli artisti moscoviti”; čekista sedulo e instancabile è Jakov Agranov (“boia dell’intelligencija”), frequentatore del salotto dei Brik, Lili e Osip, coloro che condividevano l’appartamento al numero quindici di vicolo Gendrikov con Majakovskij. Sono proprio Lili e Osip Brik ad aver organizzato, “nel maggio del ’29, l’incontro fra Nora [Polonskaja] e Majakovskij”, sperando così di trarlo dalle panie amorose in cui il poeta è caduto a causa di Tat’jana Jakovleva, giovane esule russa, conosciuta l’anno avanti a Parigi.
Ma Veronika Polonskaja che ruolo ha nella morte di Majakovskij? Lo ha visto afferrare la pistola e puntarsela al cuore? Quali sono le ultime parole che i due si sono scambiati? Serena Vitale in un romanzo-inchiesta davvero sui generis affronta l’intera ‘questione majakovskijana’ con una notevole finezza di ragionamento e una passione intellettuale che lambisce i confini della venerazione. Il defunto odiava i pettegolezzi è un libro unico, a partire dal metodo di lavoro attraverso il quale si illuminano i tasselli di una vita che non fu solo di pensieri, di gesti, di amore, ma di poesia pulsante. Serena Vitale inscena un vero e proprio dialogo polifonico, molto russo, nel quale la voce dell’autrice, nel posare sul tavolo le fonti sinottiche intorno alla morte del grande Majakovskij, si infila sotterraneamente tra di esse, le smuove e le scombina, per rivelarne le commessure che non quadrano. Scartabella i materiali del Museo statale dedicato al poeta, quelli del MChAT, il Museo del Teatro Accademico d’Arte di Mosca, e quelli dell’Archivio Russo di Letteratura e Arte. Legge il quaderno di appunti del letterato Michail Prezent, i ricordi di Lavut e quelli della sorella di Majakovskij; poi fa le pulci, e indaga anche gli spazi bianchi nei fascicoli d’inchiesta, nelle lettere, nei documenti affiorati dai segretissimi archivi di Stato dopo il 1991. Sfugge ogni particolare dalle Memorie di Veronika Polonskaja, da ciò che è palese e da ciò che non lo è, da quel che è detto e da quel che è malamente omesso, e nel farlo, rintraccia, dove può, l’intervento di mani esterne, quelle dell’autorevole ex direttrice del Museo majakovskijano, Svetlana Strižnjova, e quelle dell’“autoritaria, capricciosa, tutt’altro che riservata” Lili Brik, la più duratura tra le amanti di Majakovskij.
Ne esce uno straordinario ritratto del poeta, non deformato, non schiacciato dai riferimenti eruditi e dalla impressionante ridda di informazioni che, magicamente, riesce ad aleggiare attorno senza comprimere la vitalità del testo. Serena Vitale va, metaforicamente, ben al di là dei maldestri tentativi che all’indomani della morte di Majakovskij si erano fatti per preservarne l’immagine e per carpirne la genialità, dal calco del volto e delle mani, al prelievo del cervello fatto a fettine col microtomo (come già avvenne anni prima con quello di Lenin). Allora non si fece “la benché minima luce sul mistero della poesia”, cosa che invece capita in questo libro, che non è solo un’indagine, non solo una porzione di biografia, ma un libro di letteratura, un dramma esistenziale, un ritratto dell’intelligenza. Affiora l’immagine di un uomo e di un paese – il Paese dove il segreto di Stato fu la quintessenza della gubernandi ratio –, di un clima culturale (fatto di consorterie letterarie, di odi, di invidie, di altalenanti oscillazioni tra la ‘polvere’ e l’‘altare’) e della intricata rete passionale e sessuale entro cui visse e poi soffocò il gigante Majakovskij: “Ci siamo abituati a tutto: all’amore, all’arte, alla rivoluzione. Ci siamo abituati l’uno all’altro, al fatto che siamo vestiti e calzati, non soffriamo il freddo. Non facciamo che bere tè. Sprofondiamo nel byt [la sfera della vita sociale non produttiva]”.
In questo clima Majakovskji si è abituato a vivere, anzi a morire, lentamente. In questo ambiente – emerge dal testo – non è possibile uccidersi in pace; non solo perché il suicidio, vizio piccoloborghese, “è antiquato come una commedia di Caterina la Grande”, ma perché pure la morte appartiene al Governo, in specie la morte del sommo poeta. Quella di Majakovskij diventa una morte con prescrizione: Serena Vitale indaga superbamente come e quanto le ragioni del suicidio siano state calmierate, attenuate o enfatizzate da chi gli stava intorno, da chi lo aveva signoreggiato nell’amore, da chi lo volle poeta dell’ideologia, per il suo enorme retaggio rivoluzionario.
È una lettura notevole, avvincente come un giallo, che non solo scardina qualsiasi ingessatura agiografica, ma, dopo averci invischiati e poi distolti dalla frotta dei pettegolezzi (“Dietro la nuova e altissima ondata di ‘pettegolezzi’ si indovina l’ossessione del complotto, della congiura, malattia dei tempi vedovi di ideologie”), ci conduce, con buonissimo senso, a rimettere a posto gli orologi e i calendari dei giorni attorno al fatidico 14 aprile 1930, per giungere con un minimo di chiarezza nel fascinoso grumo di verità, forse mai definitive, che si addensa attorno all’ultima alba di Majakovskij.
(Giacomo Verri, febbraio 2016)
(Anna_SOPRoxi)