Con molto piacere ospitiamo sul blog la recensione di Demetrio Paolin (apparsa sul Foglio del 13 dicembre 2017) a un libro che indaga la figura dell’uomo Primo Levi con “discrezione e cura”.
“Oggi so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta.” Chiudendo l’imponente biografia di Ian Thomson Primo Levi. Una vita, ritornano alla mente le parole che Levi stesso pose a chiusura di Ferro, uno dei racconti più belli de Il sistema periodico. L’enorme lavoro di Thomson, uscito nel 2002, ma solo oggi tradotto in Italia, è il tentativo di raccontare la vita di un uomo complesso come fu l’autore torinese, cercando di basarsi il più possibile su dati certi, come interviste a amici e conoscenti e lacerti di lettere private. Il compito mai facile del biografo è in questo caso complicato proprio dal modo in cui Levi ha costruito negli anni la sua immagine pubblica, che è quella dell’uomo mite e gentile e che stride non poco con il corpo che le persone trovarono a terra in quel giorno d’aprile del 1987. Il nodo centrale della biografia, sul quale ruota tutto il resto del racconto, è appunto il gesto del suicidio. È presente nel suicidio delle persone un senso di ricapitolazione, forse anche involontaria: chi si uccide decide il modo in cui la sua vita sarà letta. Levi, da sempre considerato un maestro dello scrivere chiaro, ha voluto mostrarci una chiave di lettura più profonda e notturna dei suoi testi, che non riguardano solo Auschwitz e il dopo Auschwitz, ma la condizione umana più in generale. L’immagine più forte che si ricava dalla lettura di questo lavoro è la volontà di Levi di farsi riconoscere come scrittore e non come lo scampato o il sopravvissuto. Il libro di Thomson, quindi, non è solo un libro su Levi, ma anche sulla repubblica delle patrie lettere che venne a contatto con questo strano centauro, mezzo scienziato e mezzo scrittore, e sulla loro reciproca incomprensione. A colpire sono la solitudine, esemplificata dalle numerose occorrenze dell’indirizzo di casa di Levi nel testo, e la marginalità di Levi all’interno del dibattito culturale rispetto a Calvino, Pasolini o Moravia come se lo scrittore torinese non fosse all’altezza di tale palcoscenico. E questa sensazione di inadeguatezza è marchio che aleggia nelle pagine di Thomson. Ovviamente, questa sofferenza e questa marginalità non possono spiegare il suo suicidio, come non ne possono dare ragione la malattia della madre, i demoni di Auschwitz e l’infelicità della vita familiare: un suicidio non si spiega, un suicidio può essere o raccontato o compiuto: per il suicidio non ci sono parole, ma gesti, parafrasando Pavese. E Thomson sceglie le parole giuste: nelle sue pagine c’è discrezione e c’è cura, mai invadenza o giudizio. In una parola c’è sobrietà ed è questo più di tutto che avrebbe convinto Primo Levi.
Demetrio Paolin
2 Comments
Non sono assolutamente d’accordo con la recensione.
Io il libro l’ho letto interamente ed è infarcito di errori (oltre 100) sia storici che della vita di Primo Levi con giudizi approssimativi sulla figura dell’Autore che tendono ad influenzare negativamente che si avvicina perla prima volta a Primo Levi.
la traduzione poi lascia a desiderare.
Cordiali saluti
Eugenio Truffa Giachet
Gentile Eugenio,
grazie del suo commento, mi fa piacere che abbia letto interamente il libro, anche se mi dispiace che vi abbia individuato tanti errori. Da traduttrice, poi, mi rammarico che la traduzione a suo parere lasci a desiderare. Ne deduco che ha letto il libro anche in lingua originale, complimenti!
Certamente un libro non può piacere a tutti, ed è chiaro che a lei questa biografia non è piaciuta. Resta il fatto che al recensore premeva sottolineare, cioè che Thomson comprende “la volontà di Levi di farsi riconoscere come scrittore e non come lo scampato o il sopravvissuto” e il suo racconto è una sorta di risarcimento al grande autore torinese per la marginalità sul palcoscenico delle patrie lettere che ha patito in vita.