Il romanzo di Antonio Tabucchi usciva nel 1994: l’autore aveva percepito una recrudescenza di xenofobia, nazionalismi, razzismo, revisionismi in Europa, e il momento storico della pubblicazione ha inciso sulla lettura fortemente politica che è stata generalmente data del libro. Ma è facile vedere, come dice lo stesso Tabucchi, che si tratta in primo luogo di “un romanzo esistenziale, una presa di coscienza, la trasformazione di uno spirito, di un’esistenza, di un’anima”.
Pereira è responsabile della pagina culturale di un modesto giornale, vedovo grasso e cardiopatico, pigro e abitudinario, che parla alla fotografia della moglie perduta e vive – “ma era come fosse già morto” – a Lisbona: nella bollente estate del 1938, in piena dittatura salazariana, attraversa il suo mese cruciale. È un uomo in lutto, e pensa alla morte.
Pereira cominciò a sudare, perché pensò di nuovo alla morte. E pensò: questa città puzza di morte, tutta l’Europa puzza di morte.
Si chiese: in che mondo vivo? E gli venne la bizzarra idea che lui, forse, non viveva, ma era come fosse già morto. Da quando era scomparsa sua moglie lui viveva come se fosse morto. O meglio: non faceva altro che pensare alla morte, alla resurrezione della carne nella quale non credeva e a sciocchezze di questo genere, la sua era solo una sopravvivenza, una finzione di vita.
Non faccio altro che pensare alla morte, mi pare che tutto il mondo sia morto o che sia in procinto di morire.
Il suo corpo è sentito come un fardello, un ingombro. Lui, cattolico, pensa alla resurrezione della carne e
Come, pensò, se risorgo dovrò trovarmi con questa gente in paglietta? […] E l’eternità gli parve un luogo insopportabile oppresso da una cortina di calura nebbiosa, con gente che parlava in inglese e che faceva dei brindisi esclamando: oh oh!
Della morte vorrebbe parlare con padre Antonio, che però lo congeda infastidito dopo avergli dato risposte insoddisfacenti.
Pereira, vive – o muore – di abitudini, quelle che non lo turbano: il sigaro, la limonata con molto zucchero, il suo status di intellettuale non scomodo, non censurabile, un traduttore appassionato ma innocente, nascosto all’ombra di voci non sue (non gli piace nemmeno firmare le sue traduzioni).
Il giovane Monteiro Rossi, da lui assunto come scrittore di “coccodrilli”, sembra molto diverso da lui: scrive pezzi, antifascisti, pericolosi, impubblicabili, e lo fa anche per amore della sua Marta rivoluzionaria. Pereira cerca di resistere:
[…] io non sono compagno di nessuno, vivo solo e mi piace stare solo, il mio unico compagno sono io stesso […]
[…] io non sono né dei vostri né dei loro, preferisco fare per conto mio, del resto non so chi sono i vostri e non voglio saperlo, io sono un giornalista e mi occupo di cultura, ho appena finito di tradurre un racconto di Balzac, delle vostre storie preferisco non essere al corrente, non sono un cronista.
Ma sente Monteiro Rossi come il figlio che non ha avuto e “le ragioni del cuore” gli impediscono di rimproverarlo, di licenziarlo.
[…] ma lei, dottor Pereira, lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita, dottor Pereira, e da solo non sarei mai stato in grado di fare necrologi, di parlare della morte, davvero non sono in grado di parlarne. In fondo la capisco, sostiene di aver detto Pereira, non ne posso più neanch’io.
All’incontro con Monteiro Rossi seguono altri incontri importanti; la vita lancia piccole esche a quest’uomo nostalgico e passivo che pareva aver sepolto la coscienza intellettuale e civile sotto uno strato di grasso. La donna ebrea sul treno, il dottor Cardoso della clinica talassoterapica, persone che gli chiedono di agire, di cambiare:
Anch’io forse non sono felice per quello che succede in Portogallo, ammise Pereira. La signora Delgado bevve un sorso di acqua minerale e disse: e allora faccia qualcosa. Qualcosa come?, rispose Pereira. Beh, disse la signora Delgado, lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa.
Il dottor Cardoso prova a spiegargli l’origine della sua inquietudine e gli consiglia di assecondare il proprio “io egemone”:
[…] forse c’è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c’è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero.
Ed è, piuttosto semplicemente, proprio quello che farà. Pereira, poco a poco, abbocca all’amo della vita e si mette in gioco. Fa il possibile per proteggere i suoi giovani amici oppositori del regime, riesce con uno stratagemma a far pubblicare sul proprio giornale un articolo di denuncia.
Da una “non vita” senza pericolo e senza imprevisto ma gravata da tormentosi pensieri di morte a una vita rischiosa e coraggiosa, che non sembra più inutile. Pereira non dimentica la donna che ha amato ma ne accetta ormai la distanza:
Quando passò davanti al ritratto di sua moglie gettò uno sguardo complice a quel sorriso lontano.
(Anna_SOPRoxi)
L’immagine è tratta da Sostiene Pereira, adattamento del romanzo di Antonio Tabucchi del 1994 a opera di Marino Magliani Marco D’Aponte, edito da Tunué.
Mentre segnaliamo qui una breve ma intensa intervista a Tabucchi
https://www.letteratura.rai.it/articoli/tabucchi-su-sostiene-pereira/2364/default.aspx