Se non avete letto questo racconto di J.D. Salinger, fatelo subito perché vi sciuperò il finale. Non credo si possa farne a meno. Siete avvertiti!
1948, una calda giornata estiva in un albergo della Florida. Una giovane donna, sola in una camera (la 507), aspetta una telefonata interurbana ma sembra non avere alcuna fretta. Sfoglia una rivista femminile, lava il pettine e la spazzola, si strappa due pelucchi con le pinzette, si lacca le unghie. Finalmente il telefono suona e lei risponde, placida, dopo cinque o sei squilli. Con la stessa calma (svagata o semplicemente fiduciosa?) affronta l’ansia incontenibile di sua madre.
Scopriamo che la giovane si chiama Muriel Glass e non è sola: ha un compagno di viaggio, il marito Seymour, che forse è pericoloso (per se stesso, per lei, per entrambi?). Lui è stato in guerra e lei lo ha aspettato, ora hanno finalmente potuto fare questa vacanza insieme. Dall’Europa le ha portato un libro di poesie in tedesco, dell’«unico grande poeta del secolo» (Rilke?) ma lei non lo ha letto: non capisce il tedesco, non si è procurata una traduzione.
La telefonata tra madre e figlia ci fornisce informazioni frammentarie; Seymour è stato in un ospedale militare, sottoposto a cure psichiatriche, poi dimesso. Muriel non è preoccupata; preferisce parlare alla madre delle sue scottature, criticare l’abbigliamento degli ospiti dell’albergo. Muriel si fida o è solo superficiale? Non ha paura di Seymour, delle sue passate stranezze: per lei sono passate, appunto, la guerra è passata, il consumismo è appena nato e pieno di promesse e ora si può vivere una normale vita da coppia borghese.
Seymour intanto è sulla spiaggia, sdraiato sulla sabbia con l’accappatoio addosso a nascondere un tatuaggio che non ha (forse una ferita di cui lui solo conosce la presenza?). Lo avvicina la piccola Sybil: anche lei ha fiducia in lui, una fiducia infatuata ben diversa da quella indifferente di sua moglie. Siamo noi lettori a non sapere se fidarci, contagiati dai timori della mamma di Muriel e preoccupati dal superficiale, forse infondato ottimismo di Muriel stessa. Ma Seymour è perfettamente amabile con la bambina e non la delude, fanno il bagno insieme per cercare di avvistare gli sfortunati pesci-banana, che non possono fare a meno di ingozzarsi di banane fino a morire. Il gioco è del tutto innocente – anche se non c’è niente di più fallico di una banana – ma l’invenzione ha una sua crudeltà, e una sua giustizia, con l’ingordigia (dell’America postbellica?) punita.
Un brivido di incertezza ci coglie quando il giovane uomo stringe le caviglie della bambina, ma in qualche modo sappiamo che non le farà del male. È spiritoso, è dolce questo giovane, ama la poesia, suona il pianoforte, parla della gentilezza, sa giocare con naturalezza. Sembra ricordi esattamente com’è avere pochi anni e potersi costruire il mondo secondo i desideri e l’immaginazione, in un tempo in cui niente è davvero assurdo o maligno e non si conosce il rimpianto.
Rientra in albergo e prende l’ascensore con una donna. Le chiede perché lei gli stia guardando i piedi; lei è allarmata dalla stravaganza e appena può si allontana in fretta. Però a noi, guardando da qui, sembra tutto uno scherzo. C’è – sembra esserci – una levità ironica nelle parole dell’uomo.
Che problemi ha Seymour? Lo intuiamo, non sappiamo ancora. Entra nella 507, sente gli odori delle valige e dell’acetone per le unghie (gli odori artificiali del chiuso, del tempo libero, della vacanza: tutto questo acuisce il suo senso di estraneità), vede la ragazza – sua moglie, che fino a questo momento finale del racconto non era mai apparsa insieme a lui – addormentata su uno dei due letti, prende da sotto una pila di magliette una Ortgies calibro 7.65, si siede sul letto libero e si spara alla tempia. Fine.
Il breve racconto, prima di apparire sul New Yorker nel gennaio del 1948, è stato riscritto da Salinger più volte nel corso di un anno; la sezione iniziale, con la conversazione tra Muriel e sua madre, non compariva nella prima stesura. Il personaggio di Seymour e altri membri della famiglia Glass sono presenti in diversi racconti, sicché il lettore curioso può apprendere qualcosa di più su di lui (la famiglia Glass, eccentrica e disfunzionale, è stata quasi certamente di ispirazione a Wes Anderson per i suoi Tenenbaum cinematografici); ma il racconto è anche, prima di tutto, un’entità in sé completa.
Diceva Harper Lee: il libro da leggere non è quello che pensa per te, ma quello che ti fa pensare. E qui l’autore non «pensa» ma illustra gesti e parole, cose fatte e non fatte. Per esempio, Muriel si è addormentata; se non lo avesse fatto, o se avesse letto quelle poesie in tedesco, forse Seymour non avrebbe preso la pistola. Ognuno ha o potrebbe avere le sue colpe: Sybil, con i suoi tre-quattro anni di vita (pressappoco gli stessi trascorsi dalla fine della guerra) che infantile e sibillina lo chiama «See more», e lo costringe appunto a «vedere di più», vedere forse anche come la vita abbia eluso le sue speranze di bambino. Ma Sybil è altresì l’unica persona con cui lui davvero condivida un’esperienza, non a caso immaginaria. Altri colpevoli: il benessere ostentato dell’America mentre l’Europa è ancora devastata. La guerra, il Male che incrina le esistenze al punto di farne oggetti da buttare via.
Qui tutto il dicibile si dice ma niente si spiega. Abbiamo indizi del fatto che Seymour è buono ed è fragile, che sua moglie è una donna svagata e superficiale desiderosa soltanto di credere in una ritrovata «normalità» che per lui rappresenta, a quanto pare, una schiacciante contraddizione. L’unica cosa naturale che gli resta da fare è uscire di scena.
Attraverso questa rappresentazione «minimalista» che non mostra neppure le espressioni dei volti, il suicidio imminente si lascia intravedere. Il dialogo telefonico tra madre e figlia ha pochi dettagli concreti ma compone, pezzo per pezzo, la sensazione del pericolo; eppure il finale, che solo poi capiamo essere annunciato, ci mozza il fiato. L’anima di Seymour si è irrimediabilmente separata, sconnessa dalla collettività materialista che cerca di inglobarlo.
L’innocenza infantile è perduta: quella che Sybil gli regala ne è un’ultima eco. La guerra è finita, insomma, ma non è finita: continua a mietere le sue vittime, gli outsider di ogni ceto e colore, quelli che hanno bisogno di qualcosa, qualcos’altro, che gli adulti non sono capaci di vedere e che anche noi lettori abbiamo intravisto a fatica. E superato il punto finale della storia cercheremo disperatamente quel qualcosa, ripercorrendo dal principio ogni parola, chiedendoci come si sarebbe potuto salvare Seymour senza avere esperito insieme con lui il Male indicibile della guerra.
(Anna_SOPRoxi)
Salinger, J.D. 1948. Un giorno ideale per i pescibanana in Nove racconti, traduzione di Carlo Fruttero, collana ET Scrittori, Einaudi, 2009.
7 Comments
Lenin, a proposito delle opere d’arte, chiedeva: “Serve per la rivoluzione?”. Per l’opera di J.D. Salinger cosa avrebbe risposto?
Ciao bella recensione.. una domanda, avendo la stessa edizione e quindi la stessa traduzione mi sapresti dire esattamente dove Sybil lo chiama “see more”? O è una cosa che si trova solo in originale e che si perde nell’ed Italiana? Grazie mille
Grazie, Giuseppe! Purtroppo non ho sottomano la traduzione, ho letto il racconto soltanto in originale (ma mi sembrava giusto segnalare una traduzione ai lettori italiani). A questo punto sarei curiosa anch’io… Proverò a fare una ricerca!
Grazie Anna
Ciao Anna, giusto….anche, medito e mediterò!
Bellissimo articolo su un bellissimo racconto, secondo me uno dei primi tre racconti ( senza questi metterli in ordine di preferenza) di tutta la storia della letteratura: “Cattedrale” di Carver e “Colline come elefanti bianchi” di Hemingway. Aggiungo quello che ho letto io nel racconto di Salinger: l’ineluttabilità ed imprevedibilità del destino, Seymour che si sucida all improvviso e chiude il racconto, uno schianto, come un incidente stradale. Complimenti sinceri.
Simone Bachechi
Grazie mille, Simone. Sì, è verissimo quello che dici. Quasi sempre è uno schianto, un “imprevisto” che ci lascia interdetti. Anzi di più, perché non dipende dal fato ma dalla volontà.
A rileggerci presto!