Le persone che, da poco tempo, hanno perso qualcuno
hanno un particolare aspetto,
riconoscibile soltanto da coloro che hanno visto quella stessa
espressione nel loro volto.
(Joan Didion, L’anno del pensiero magico)
Presentato al 78° Festival del Cinema di Venezia (sezione Orizzonti Extra) Ma Nuit, esordio alla regia di A. Boulat, seduce lo spettatore con la delicatezza di una poesia. Una poesia di immagini a cui le parole – mai troppe e sempre incisive – donano il senso insaturo di interrogativi e turbamenti che attraversano un giorno, una stagione della vita (l’adolescenza), un’epoca (l’antropocene).
Il film, interamente girato a Parigi durante la pandemia, ci presenta la diciottenne Marion nel giorno del compleanno della sorella, Alice, morta cinque anni prima alla sua stessa età. La incontriamo mentre si aggira per le strade di una città assolata con una macchina fotografica in mano. Marion entra in contatto con la realtà attraverso l’obiettivo, ritrae ma non si fa ritrarre, osserva ma non partecipa poiché la morte l’ha privata di una sorella e della presenza di due genitori: il padre se ne è andato e la madre, pietrificata dalla scomparsa della primogenita, non ha occhi né cure per lei, presenza viva, che chiede di essere riconosciuta anche nel suo desiderio di libertà.
Un desiderio di libertà che prende la forma dell’opposizione – Marion, diversamente dalle amiche, non ha problemi a dire di no o, forse, è obbligata a dire di no – e di una solitudine dolorosa ma indispensabile per incontrare le proprie paure, riconoscere la perdita e trovare, si spera, un nuovo modo di esistere. Esistere, non sopravvivere, nonostante quel trauma che ha ferito e complicato la sua già difficile epoca di transizione, l’adolescenza. Marion vorrebbe essere come le sue amiche ma non ci riesce, prova a stare in gruppo ma si allontana e quando cala la notte – di ballo, di sballo e vampiri – lei se ne va perché vuole attraversarla da sola. La paura le impedisce di lasciarsi andare e dormire.
Ed è qui, in questa traversata reale – di una Parigi notturna con i suoi pericoli – e metaforica – la perdita dell’altro, delle certezze infantili e dei sogni – che Marion incontra Alex. Nulla di nuovo, certo, ma ciononostante, comunque, un film che suggella la lunga esperienza cinematografica di Antoinette Boulat (già cast director di Lars Von Trier, Olivier Assayas, Sofia Coppola e Wes Anderson) e a cui l’incantevole intreccio di immagini, parole e suoni dona una sua originalità. Un mix capace di rappresentare la dinamica del lutto e la sua possibile elaborazione con la delicatezza di una poesia e la precisione di chi l’ha attraversata davvero: dialoghi brevi, intensi, parole che colpiscono nel segno di una perdita personale e collettiva.
Alex, diversamente da Marion, sembra aver già attraversato una perdita, una perdita epocale, forse più semplice in quanto collettiva; a lui stanno a cuore il pianeta, la natura, il clima e gli effetti – di danno o di salvaguardia – che l’azione dell’uomo può avere su di essi. Due perdite di carattere diverso, dunque, ma accomunate da una riflessione su sé stessi, sull’altro e sul futuro che li attende. Un futuro non troppo roseo rappresentato da un pianeta sofferente, simile ad un genitore a cui l’assalto degli anni ha tolto energia e risorse. Un genitore invecchiato, stanco, impossibilitato ad elargire quello che non molto tempo prima appariva scontato, una madre depressa, qualcuno, in ogni caso, da salvaguardare piuttosto che qualcosa da cui evadere e da sostituire con un mondo immaginario. L’elaborazione di un lutto, indipendentemente dalla sua natura, implica sempre il doloroso riconoscimento della realtà della perdita e, allo stesso tempo, l’assunzione di una propria responsabilità nei confronti della vita che, comunque, abbiamo di fronte.
Un film sulla solitudine e sull’incontro all’interno del quale la sessualità si gioca solo sul registro della ricerca di un legame, di una possibile relazione, con l’altro; due giovani capaci di un avvicinamento graduale e consapevoli – forse malgrado sé – che “anche se siamo appesi ad un filo” e “dobbiamo accettare la morte e la catastrofe” possiamo solo andare avanti, “continuare”, possibilmente insieme.
“Freedom is a feeling! Freedom is No fear”, proclamava Nina Simone nel 1968. Essere liberi – come ricorda Alex – significa non aver paura… paura di sé, dell’altro e della realtà che abbiamo innanzi.
[Ma Nuit, regia di Antoinette Boulat, Francia-Belgio, 2021, 87 minuti]