Nel 1985 (questa canzone vide la luce trent’anni fa giusti giusti, sul lato B di The Boy with the Thorn in his Side) le parole di Morrissey – dandy, novello Oscar Wilde reincarnato nell’Inghilterra thatcheriana – erano vangelo, per me come per moltissimi ventenni e adolescenti inglesi o anglofili in giro per il mondo. Gli Smiths ti facevano sentire speciale per il solo fatto di ascoltarli. Gli Smiths ti dicevano, tramite l’inconfondibile cantilena trasognata della voce di Morrissey, che non eri solo, anche se eri solo: non eri l’unico/a a sentirti un pesce fuor d’acqua, a covare nello stesso tempo una disperata voglia di omologazione (parlare, vestire, apparire, atteggiarsi come gli altri) e un profondo disgusto per la stessa (io sono diverso, più sensibile, più “profondo”, intorno a me nessuno mi capisce, nessuno mi apprezza). La voce di Morrissey declina la violenza idiota del mondo contro il piccolo, il debole, il diverso, il deviante, l’ipersensibile. È un lamento che rattrista e che consola, dando voce a chi non sapeva neppure di averne una. Anche ai bovini avviati al macello di Meat is Murder.
Se avete visto il film Noi siamo infinito di cui già ha raccontato Valentina in questo blog, avrete imparato a conoscere la canzone di cui si parla qui: Asleep.
Cantami una ninna nanna
Sono stanco, voglio dormire
Cantami una ninna nanna
E poi lasciami solo
Non provare a svegliarmi domattina
Perché sarò andato via
Non dispiacerti per me
Devi sapere
Che in fondo alla prigione del mio cuore
Sarò tanto felice di andare
Cantami una ninna nanna
Non voglio più svegliarmi da solo
Canta per me
Non voglio più svegliarmi da solo
Non dispiacerti per me
Devi sapere
Che in fondo alla prigione del mio cuore
Voglio andare via, davvero.
Esiste un altro mondo
Esiste un mondo migliore
Be’, deve esserci
Deve esserci
Addio…
Musicalmente, è un brano molto spoglio: un pianoforte, la voce, un suono come di vento.
Dice Michael Hann sul Guardian:
“Asleep è l’ennesima prova di come Morrissey sia stato il più grande cantore della mentalità adolescenziale che mai abbia scritto una canzone. È difficile considerare Asleep come l’ultima dichiarazione di una persona in preda a depressione in fase terminale; suona e appare come il discorso di chi è consumato dalle emozioni e ha perduto la volontà di affrontarle. Il classico adolescente malinconico”.
Voglio andare, dice. Lo voglio davvero, dal fondo della cella / segreta / prigione del mio cuore (“the cell of my heart”), non dovete sentirvi in colpa, non dovete soffrire per me. Ad accompagnarmi fino all’ultimo sonno in questo mondo voglio qualcosa di bello, voglio una voce amata. Vi dico addio e vado in un posto migliore, perciò non dispiacetevi per me.
Il ‘better world’ di Morrisey, come sarà? Sembra più un aldilà di pace e superiore conoscenza che un nulla leopardiano (“Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è”).
Questa canzone, a mio parere, dà voce a un desiderio di morte, cioè di cambiamento, ma non è fatta per attizzare la fiamma di un intento suicidario. Questa voce dice che “andare” può essere una decisione profondamente personale e in quanto tale va rispettata.
A me, nei momenti bui, ha sempre regalato uno strano sollievo, ma non il sollievo di chi decide di andarsene. È – può anche essere – la canzone del riposo, dell’abbandono; evoca la dolcezza di un altrove migliore che forse è, semplicemente, domani. Domani è un altro giorno. È un altro mondo. Nel quale, chissà, potrebbe nascere ancora una band meravigliosa come gli Smiths, perché come dicevano in un’altra bellissima canzone (Hand in Glove, il loro primo singolo) «The good life is out there, somewhere», la felicità è là fuori, da qualche parte.
Deve esserci.
(Anna_SOPRoxi)