Electro-Shock Blues esce nel 1998 ed è il disco nel quale Mark Oliver Everett, anche noto come Mr. E (la mente unica degli Eels, da una ventina d’anni band di punta dell’alternative rock statunitense) fa letteralmente a pugni con i suoi demoni: tutte le canzoni hanno in qualche modo a che fare con il declino e la morte della sorella e della madre (suicida la prima, vittima di un cancro la seconda).
I testi sono cupi, di una crudezza anche scioccante ma la musica non manca mai di una sua levità, come per consentirci di guardare la scena senza bruciarci gli occhi. Vediamo all’inizio del disco Elizabeth, la sorella, che giace sul pavimento del bagno e udiamo le parole che la ragazza ha scritto sul diario nei suoi ultimi giorni, che oscillano dalla speranza di raggiungere un posto dove essere sempre “high”, nel suo doppio senso di “alto” e “sballo”, al disperato nichilismo e repulsione per la propria vita; assistiamo a una visita di Mark nella casa di cura in cui Elizabeth è ricoverata e scendiamo con lui dentro la follia… o quasi. Perché in realtà ci fermiamo prima di cadere, arriviamo sull’orlo e capiamo insieme a lui che si può – forse si deve – vivere.
Mark decide infatti di fare una cosa coraggiosa: ora che è rimasto unico superstite della sua famiglia, provare a dire l’indicibile, senza reticenze, con una precisione da poeta e con il balsamo, il linimento che solo la musica sa somministrare. Ci racconta perciò di una vita, “life”, che in un tragico fraintendimento diventa il proprio opposto (“efil”); ci racconta il “giorno perfetto per un dolore perfetto” provato al funerale (della madre, della sorella, di entrambe); ci parla del “cancro per la cura”; del peso del padre geniale ma terribilmente assente (Baby Genius: anche qui un rovesciamento di ruoli, un padre che diventa figlio di suo figlio e rappresenta un carico insostenibile).
Questa è la sua ricerca, questa la sua spavalda elaborazione del “lutto complicato”: guardare con gli occhi bene aperti la misteriosa e feroce realtà che lo ha colpito, rigirarla tra le mani per assorbirla intera, lasciarsene attraversare. Non troverà risposte definitive – nessuno può trovarle – ma avrà “amplificato” il problema fino ad arrivare a esaurirlo, come dice James Hillman ne Il suicidio e l’anima (James Hillman, Il suicidio e l’anima, trad. Adriana Bottini, Adelphi 2010). Ci lascerà così alla fine del disco con un post scriptum, una notazione finale che spande luce di speranza.
Tutti stanno morendo e forse è tempo di vivere. Non so dove stiamo andando, non so che cosa faremo […] So che ho soltanto questo momento, ed è buono. Sono andato alla stazione di servizio, una vecchia ha suonato il clacson aspettando che le riparassi la macchina […] Stanotte, sdraiato a letto, pensavo, ascoltando tutti i cani e le sirene e gli spari, che un uomo prudente cerca di schivare i proiettili, mentre un uomo felice si fa una passeggiata. E forse è tempo di vivere.
Qui, ora, senza paura, senza troppa prudenza.
Mr. E si può ben dire un artista del sopravvivere. A diciannove anni, nel 1982, trova per primo il cadavere del padre – Hugh Everett III, il noto fisico che formulò l’interpretazione a molti mondi (che nella vulgata diventano i fantascientifici “universi paralleli”) della meccanica quantistica – morto d’infarto poco più che cinquantenne. L’amatissima sorella Elizabeth soffre di gravi disturbi psichici, potenziati dalla dipendenza da sostanze stupefacenti; morirà suicida nel 1996, seguita due anni dopo dalla madre, vittima di un cancro ai polmoni.
Mark comincia a sei anni a suonare la batteria, e una decina d’anni più tardi si interessa alla chitarra acustica della sorella. La musica diventa, come si suol dire, tutta la sua vita: scrive e registra canzoni praticamente ogni giorno, fino ai ventiquattro anni quando dalla Virginia si trasferisce a Los Angeles. Come lui stesso racconta, trascorre molto tempo in solitudine; di giorno lavora (un mucchio di lavoretti diversi, che sempre detesta), la sera torna a casa, scrive e registra e va a dormire.
Il primo contratto discografico, che gli permette di lasciare i lavoretti e concentrare tutte le sue energie sulla musica, è del 1991; dopo due album che riscuotono un buon successo nel circuito indipendente, nel 1996 arriva il successo planetario con il singolo Novocaine for the Soul (contenuto nell’album Beautiful Freak).
Nel 2008 Mark Oliver Everett ha pubblicato un libro autobiografico che è un po’ anche romanzo, ironico e mai patetico, Things the Grandchildren Should Know (la versione italiana ha un titolo meno sobrio: Rock, amore, morte, follia e un paio d’altre sciocchezze che i nipotini dovrebbero sapere).
https://www.eelstheband.com/story/title.html
(Anna_SOPRoxi)