Nel 1960, a sette anni dalla morte di Stalin, l’allora capo di stato sovietico Nikita Chruščёv provava a distanziarsi dal suo predecessore e plasmare l’immagine pubblica di un “comunismo dal volto umano”. Se la cruenta soppressione della rivolta ungherese nel ‘56 aveva manifestato la difficoltà nel concretizzare tale posizione sul fronte estero, sul versante interno era in atto il tentativo di reclutare le figure di spicco dell’intelligencija e assegnar loro ruoli di alta rappresentanza negli organi di partito.
Con Stravinskij ormai emigrato a Los Angeles e Prokofiev scomparso nel ‘53 (ironia della sorte, lo stesso giorno di Stalin), Dmitrij Šostakovič era indubitabilmente il più grande compositore russo vivente. Da tempo si pensava a lui per la posizione di primo segretario dell’Unione dei compositori delle RSFSR, scontrandosi tuttavia con un “cavillo”: Šostakovič aveva sempre rifiutato fermamente la tessera del Partito comunista! Nella tarda primavera del ‘60 le pressioni si fecero via via più pesanti fino a che, dopo una cena probabilmente architettata ad hoc, fiaccato anche dalle numerose birre versategli, Šostakovič cedette e firmò la domanda di iscrizione. Nonostante le possibili attenuanti, non si perdonerà mai tale cedimento, vissuto come il crollo della sua integrità morale.
Lev Lebedinskij, collega e amico, racconta di un loro incontro di poco successivo in cui uno Šostakovič stravolto, in lacrime ripeteva «Mi perseguitano!». Il compositore riuscì a posticipare il penoso momento della pubblica comunicazione del suo tesseramento dapprima rifugiandosi per qualche giorno a Leningrado, dalla sorella, poi partendo alla volta di Dresda assieme al regista Leo Arnštam, cui era stato commissionato un film sul bombardamento alleato con colonna sonora di Šostakovič. Dal soggiorno di Gorhisch, cittadina a quaranta chilometri da Dresda, scrisse così all’amico Isaak Glikman:
“[…] E’ un posto di una bellezza indescrivibile. Tra l’altro, è ovvio che sia così: questo posto è chiamato la Svizzera sassone. Le condizioni propizie alla creazione hanno dato il loro frutto: ho composto là l’Ottavo quartetto. Per quanto mi sia sforzato di mettere giù qualche abbozzo per il lavoro del film, per ora non ci sono riuscito. E invece ho scritto un quartetto che non serve a nessuno ed è ideologicamente riprovevole. Ho riflettuto sul fatto che, se un giorno o l’altro morirò, sarà difficile che qualcuno scriva una composizione dedicata alla mia memoria. Per questo ho deciso di scriverla io stesso. Sulla copertina si potrebbe scrivere: «Questo quartetto è dedicato alla memoria del suo autore». […] La pseudo-tragicità di questo quartetto è tale che io, componendolo, ho sparso tante lacrime, quanta orina si può spandere dopo aver bevuto una mezza dozzina di birre. Giunto a casa, un paio di volte ho provato a suonarlo e di nuovo ho pianto. Ma questa volta non soltanto per la pseudo-tragicità, ma anche per la meraviglia della splendida compiutezza della forma. E forse entra in gioco anche un certo autocompiacimento, ma credo che presto lo spirito di autocritica mi farà smaltire questa ubriacatura”.
Come non di rado nella storia della musica, è a un’opera da camera, non elettivamente destinata all’esecuzione pubblica, che l’artista affida il proprio messaggio più intimo e confidenziale. L’Ottavo quartetto, a tutt’oggi il più eseguito, è una composizione straordinaria non solo per intensità ma anche per la sua unicità dal punto di vista formale. Si articola in cinque movimenti, tre dei quali (I, IV e V) lenti, recanti l’indicazione agogica “Largo”. Il quartetto si apre con un tema altre volte impiegato dall’Autore: Re – Mi bemolle – Do – Si, che nella notazione tedesca “D-Es-C-H” rimanda alle iniziali di Šostakovič (D.Sch.) così come pronunciate in russo. Il tema è destinato a riapparire più volte nell’arco della composizione, il cui incedere sarà scandito da numerosi elementi di citazione (perlopiù auto-citazioni). Dalla lettera a Glikman:
“[…] Nel quartetto ricorrono temi delle mie composizioni e la canzone rivoluzionaria Zamučen tjažëloj nevolej (“Oppresso da duro servaggio”). I miei temi sono i seguenti: dalla Prima sinfonia, dall’Ottava sinfonia, dal Trio, dal Concerto per violoncello, dalla Lady Macbeth. Per accenni sono citati Wagner (Marcia funebre dal Crepuscolo degli dèi) e Čajkovskij (secondo tema dal primo movimento della Sesta sinfonia). Già, ho dimenticato: anche la mia Decima sinfonia. Una bella insalata!”.
Così incardinato su rimandi al passato (da notare, peraltro, che le opere citate erano accomunate da ricezioni entusiastiche delle rispettive prime esecuzioni), quasi a ripercorrere un’esistenza in musica, il quartetto è da molti interpretato come un testamento. Pare, tuttavia, che sotto (e assieme) a queste vesti di requiem laico, l’opera sia portatrice di una sorta di vis sanatrix artis. L’ultimo accordo, in partitura segnato con un morendo, non sarà l’ultimo…
Sempre secondo la testimonianza di Lebedinskij, nel giorno del suo rientro dalla Germania, dopo aver acquistato un’ingente quantità di sonniferi, Šostakovič gli suonò il quartetto al pianoforte, dichiarando che si sarebbe trattato della sua ultima opera. Temendo che l’amico stesse realmente covando l’intento di porre fine alla sua vita, Lebedinskij racconta di aver sottratto e nascosto i medicinali dalla giacca e di aver nei giorni successivi trascorso “più tempo possibile” a fianco di Šostakovič, finché considerò superato il rischio di un gesto estremo. Anche il figlio di Šostakovič, Maksim, all’epoca ventiduenne, racconta di esser stato in quei giorni chiamato nello studio del padre che, piangente, confidò a lui e alla sorella di esser stato “costretto a iscriversi al Partito”. Dovendo, più avanti, formulare una dedica adeguata alla pubblica diffusione della partitura, Šostakovič scriverà “In memoria delle vittime del fascismo e della guerra”. Sebbene fosse stato certamente segnato dalle drammatiche impressioni di Dresda rasa al suolo, è difficile non pensare che il compositore considerasse egli stesso nel novero delle vittime.
Quell’ultimo accordo, dicevamo, non sarà l’ultimo: Dmitrij Šostakovič si spegnerà per infarto cardiaco il 9 agosto 1975, quindici anni e decine di opere più tardi, fra le quali altri sette quartetti per archi e quattro sinfonie.
(Paolo Busetto per SOPRoxi)
Bibliografia: