Alzando lo sguardo si viene rapiti all’improvviso da figure misteriose e incombenti, spettri che si stagliano contro il grigio del cielo, sospesi, silenziosi: stanno per precipitare?
Sono 84 gli uomini dai volti coperti eretti ai margini dei tetti della torre del London Television Centre, uno degli edifici più alti della città. Sul punto di saltare verso morte certa. La vista di tale scenario è straziante. Ottantaquattro sagome anonime scambiabili per esseri umani in carne ed ossa, manichini che progettano la propria fine: le sculture di Mark Jenkins.
“Project 84” nasce dalla collaborazione tra l’artista Mark Jenkins e CALM (Campaign Against Living Miserably), organizzazione benefica che si occupa della prevenzione al suicidio. L’intento è di sensibilizzare l’opinione pubblica e ispirare riflessioni e azioni necessarie a contrastare questo fenomeno.
Ogni settimana 84 persone nel Regno Unito si tolgono la vita, una ogni due ore, e la maggior parte di loro sono uomini. Il suicidio maschile e la salute mentale sono un problema di cui si parla poco, e che non può più essere ignorato.
Le 84 figure, questi sembianti umani, ci pongono obbligatoriamente di fronte all’atto in sé: l’impatto è violento, è reale, non ci sono barriere che ci possano difendere rispetto a quanto stiamo percependo, ci sono uomini sul tetto che potrebbero precipitare.
Ognuna delle 84 figure di Mark Jenkins è stata progettata con la collaborazione delle famiglie e dei cari che conoscevano i defunti, i “sopravvissuti”. Ognuna delle figure rappresenta una persona realmente esistita che si è tolta la vita e che questo progetto vuole in qualche modo ricordare ed onorare.
Le sculture di Mark Jenkins vogliono destare l’attenzione e creare sconcerto nei passanti. I suoi prototipi umani vengono lasciati soli a interagire con gli spettatori involontari, vogliono provocare, diventando immagini tramite cui evidenziare gli effetti specifici dell’ambiente sulle emozioni e sui comportamenti individuali. Il dialogo che si instaura non è solo con il disagio e la paura, ma anche con la noncuranza e l’indifferenza.
Il suicidio è un fenomeno stigmatizzato, le persone che si tolgono la vita vengono giudicate, ma spesso la sofferenza che queste persone – e le loro famiglie – si portano dentro viene sottovalutata.
Spesso siamo indifferenti a quanto ci circonda, specialmente nei confronti di ciò che non conosciamo.
L’intervento di Mark Jenkins ha generato numerose polemiche, ma ha il merito di aver riacceso il dibattito sul suicidio (maschile). Parlare di suicidio sembra promuovere un comportamento “mortifero” e sembra scontrarsi con le manifestazioni di vita, incoraggiando una spinta verso la morte.
La suicidologia classica considera il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al proprio insopportabile dolore. Tale sofferenza converge in uno stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. La persona vive un dramma all’interno della propria mente in cui la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura e l’angoscia sono solo alcune caratteristiche. L’urgenza di porre fine a tale stato diventa impellente. Il rischio si palesa quando la persona inizia a considerare il suicidio come la migliore (e unica) soluzione per placare la propria sofferenza, nel disperato tentativo di preservare se stesso.
Bisogna comunque considerare che le persone, per quanto possano percepirsi sole, sono sempre inserite in un contesto, all’interno del quale si trovano gli “altri”. L’altro è sempre presente, e in qualche modo può farsi spettatore passivo o attore attivo nella vita di una persona. Ed è proprio quando sembra che la persona faccia il possibile per allontanare gli altri, che si rivela il paradosso del comportamento suicidario.
Mark Jerkins ci costringe a guardare: siamo tutti coinvolti.
Indurre le persone a prenderne atto, indurle a parlarne, sono i mezzi più potenti di cui disponiamo per conoscere e prevenire il comportamento suicidario. Parlare di suicidio e chiedere sul suicidio è senza dubbio un’azione che lo può prevenire.
Ognuna di queste figure è un toccante promemoria di una vita reale persa e un forte appello alla società per unirsi e mobilitarsi contro il suicidio.
Tea Mareschi
2 Comments
“….La persona vive un dramma all’interno della propria mente in cui la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura e l’angoscia sono solo alcune caratteristiche. L’urgenza di porre fine a tale stato diventa impellente. Il rischio si palesa quando la persona inizia a considerare il suicidio come la migliore (e unica) soluzione per placare la propria sofferenza, nel disperato tentativo di preservare se stesso….”
Davvero? Siete davvero convinti che questa sia la risposta? Signori… Non è così!
Sono molto confusa a riguardo,mio marito si è suicidato un anno fa.
Perché dici che non è così?