Alberto Fortis ha 24 anni quando viene pubblicato il suo primo album, che contiene almeno tre canzoni memorabili: nello spazio dei ricordi di chiunque avesse l’età della ragione nel 1979, un angolo è certamente occupato da Milano e Vincenzo, A voi romani e La sedia di lillà.
Alberto è rimasto orfano di madre a diciotto anni, e lo zio materno, Ugo De Gasperis, è una figura molto presente nella sua giovinezza. Lo zio è un uomo intelligente, sportivo, creativo, vitale, intraprendente; e un giorno il destino, col suo consueto cinismo, lo priva dell’uso degli arti in seguito a una caduta da una scala in giardino, dov’era salito per raccogliere albicocche da un albero.
Zio Ugo smette di muoversi e di parlare. Qualche volta, in preda allo scoramento, chiede a Dio di portarselo via. Ma per il resto del tempo, l’uomo combatte invece la sua paralisi, tanto da recuperare la voce e anche un poco di forze per alzarsi con le stampelle.
Il giovane Alberto, scrivendo La sedia di lillà, immagina che un uomo spezzato, com’era stato spezzato il fratello di sua madre, esaudisca invece da sé la propria preghiera di morte.
Del vero protagonista della canzone si sa poco: si sa che ha patito per amore e per tradimenti di amici, si sa di un rimuginare tormentoso (un rimuginare che probabilmente appartiene allo stesso Alberto: Penso troppo al mio futuro, penso troppo e vivo male). Si sa poco, ma è tutto quello che occorre per ricordarlo indelebilmente. Ci basta sapere che provare a sorridere gli straccia le labbra, che a diluire il sangue sul suo viso ci pensano le lacrime, che le sue rughe di cemento sembrano impossibili da spianare.
Ma alla fine diventa ombra priva di peso e di pena, intravista nel suo silenzioso dondolio-danza. Alla fine la voce emozionante di Fortis dice benissimo, in un canto senza parole, la malinconia straziata di chi resta e il sollievo definitivo di chi ha deciso di andare.
Stava immobile nel letto con le gambe inesistenti
e una piaga sulla bocca che seccava il suo sorriso
Mi parlava rassegnato con la lingua di chi spera,
di chi sa che è prenotato sulla sedia di lillà
Ogni volta che rideva si stracciavano le labbra
e il sapore che ne usciva era di stagione amara
Le sue rughe di cemento lo solcavano di rosso
prontamente diluito da una goccia molto chiara
“Penso troppo al mio futuro” ripeteva delirando
“Penso troppo al mio futuro, penso troppo e vivo male
Penso che fra più di un anno cambieranno i miei progetti
Penso che fra più di un anno avrò nuove verità
Tu non farmi questo errore, vivi sempre nel momento
Cogli il giorno e tanto amore cogli i fiori di lillà”
“Quanti amici hanno tradito” continuava innervosito
“Quanti amici hanno tradito per la causa dell’amore”
Sono andato a casa sua, sono andato con i fiori
Mi hanno detto che era uscito, che era andato a passeggiare
Ma vedevo un’ombra appesa, la vedevo dondolare
L’ombra non voleva stare sulla sedia di lillà
12 Comments
Dimenticavo. Perché la sedia è di colore lillà? Ripensando ai confetti lillà come uno dei principali simboli del movimento gay, non sarà che questo zio paraplegico fosse appunto un omosessuale? così si capirebbe meglio anche il significato dell’altra canzone “In soffitta” che molti critici trovano ermetica e che invece con tale interpretazione conferirebbe agli accusatori un ruolo ben preciso come responsabili dell’impiccagione (alla fine degli anni ’70 l’opinione pubblica nei riguardi dell’omosessualità non era certo aperta come oggi).
Diciamo che non è facile trovare un significato univoco ai testi di Alberto Fortis… Come succede di solito per la poesia, lui ci mette soprattutto il suono e ciascuno di noi vi aggiunge un poco del proprio senso 🙂
Grazia Anna. Sinceramente mi aspettavo una decisa e quasi offesa risposta alla mia idea; per questo mi ha sorpreso e naturalmente non può che soddisfarmi, anche perché condivido in pieno questa interpretazione “soggettiva” del modo di approcciarsi al miracoloso mondo della poesia: era esattamente quello che raccomandavo ai miei alunni quando insegnavo (ora in pensione da dieci anni).
Ieri per puro caso ho riascoltato questa canzone dal mio vecchio LP (ne ho quattro di Alberto Fortis). Da allora non riesco più a togliermela dalla testa e qualcosa dentro mi spinge ad andare a riascoltarla e riascoltarla; e quel lungo assolo musicale in coda è di uno struggente da paura!
Quando mi sento giù, questa canzone è come un’aspirina per l’influenza….
Non va spiegata… L’aspirina su ognuno di noi fa un effetto diverso ma sempre ci aiuta….
Luca bardelli
Giusto, Luca! 🙂 Non era mia intenzione “spiegarla”, infatti; soltanto dare un po’ di contesto e condividere le sensazioni che mi suscita.
Thank you so much for this; the improved translation as well as the background of this tender song. I fell in love with the music of Alberto Fortis while studying in Italy (mostly Urbino), and this song makes me cry to this day. I’m always struck that it’s performed in concert with apparent joy. Now I understand the relief he sees for those who escape, and I understand the wordless portions of the song.
Thank _you_ for your comment, Kip! I see your point (about the live performance). I have felt the same with “Born in the USA”, too much enthusiasm in every Springsteen’s concert for such a tragic song… But that’s how rock and pop concerts work 🙂
grazie per avere scritto questo pezzo. sono convinto che, in questo come in altri casi, molte cose belle le abbiamo già, e da tempo, ma non lo sappiamo, e ci avventiamo sempre sulle novità, che non sempre sono all’altezza, anzi non lo sono quasi mai.
Grazie a te, Bruno. Io in ogni caso spero che qualcosa di bello si annidi anche tra le novità. Io non mi ci avvento più come facevo da ragazza, ma qualche volta mi piacerebbe recuperare la curiosità entusiasta e il gusto piccantino delle scoperte 🙂
Naturalmente la penso come te riguardo alla riscoperta del bello che abbiamo già. Vale la pena di disseppellire tesori più o meno nascosti, come questo 🙂
Un’impronta indelebile nella storia della poesia musicata. Un capolavoro che a distanza di decenni ascolto ancora alla soglia dei 60 anni. Chapeau, Alberto!
Hai ragione, Marco! Ci sono “canzonette” che non invecchiano mai, questa è una.