Volendo definire in due parole il film dell’esordiente Emerald Fennell Una donna promettente, nei cinema italiani dal 24 giugno 2021, vincitore di un Oscar per la miglior sceneggiatura originale e interpretato dalla strepitosa, perfetta Carey Mulligan nei panni di Cassie (ovvero Cassandra: sarà mica un caso?), si può ben dire che è una commedia nera. Che ruota intorno a un suicido, mai menzionato eppure presentissimo.
La “black comedy” è una faccenda seria: nello stesso istante intriga, diverte e fa sentire a disagio. E questo è un film riuscito perché fa molto bene tutte e tre le cose. Lo fa grazie all’intelligenza dei dialoghi, a un racconto discreto e feroce che aggira ed elude il fatto centrale: il suicidio della migliore amica di Cassandra, Nina, una luce livida a cui non si scappa.
Ci costringe a guardare il mondo con gli occhi di una giovane – ma non più abbastanza giovane – ferita, in cerca di vendetta. La sua fissazione è prendere uomini di ogni tipo, soprattutto quelli che hanno l’aria dei bravi ragazzi e quasi sempre sono convinti di esserlo davvero, e strofinargli il muso nella loro vigliaccheria, nella loro natura – e cultura – egoista, irrispettosa e violenta. Quella che per tanto tempo era sembrata agli uomini, in fin dei conti, una modalità di approccio accettabile, svela i suoi veri attributi: orrenda e mortifera.
Ma Il bello di Cassandra è che lei non cerca vendetta per una sorella o un consanguineo, ma per la sua migliore amica. Questo soprattutto ce la fa amare, ci fa stare tutte/i dalla sua parte, anche quando ci verrebbe voglia di scrollarla e implorarla di lasciar perdere, Ma lei è una sopravvissuta, e non di quelle che si vergognano del loro dolore. Se invece di uno stupro ci fosse stata di mezzo un’altra forma di violenza, non necessariamente agita da maschi, per lei non sarebbe cambiato molto e sarebbe comunque vissuta per la vendetta.
Il film è riuscitissimo anche grazie a un cast eccezionale e a una colonna sonora allusiva e ironica come più non si potrebbe. Basti pensare alla canzone che chiude il film, Angel of the Morning:
Non ci saranno corde per legare le tue mani / Se il mio amore non può legare il tuo cuore… Non c’è bisogno che mi porti a casa / Sono abbastanza grande per affrontare l’alba.
Un film sfaccettato e capace di parlare a ognuno in modo diverso; per esempio alla nostra Roberta ha suggerito questi pensieri:
Che cosa si fa quando una delle persone che ami di più si suicida?
Si vive. Si vive alla seconda, si vive ad una marcia diversa, si vive per due, anzi per tutti coloro che non ce l’hanno fatta, che sono scesi dalla barca prima, che hanno deciso che era tutto troppo, che non hanno avuto abbastanza ascolto, supporto, una fune tanto solida che li riportasse a bordo, una chiamata, una parola in più che potesse alleviare il loro dolore.
Si vive, perché non c’è altra via di uscita per scampare al dolore, perché restare nell’immobilismo, nella fermezza e nella staticità non renderebbe abbastanza giustizia a coloro che sono andati via.
Si vive perché ci si può aggrappare per anni alla vendetta, alla rabbia, alla ricerca di un colpevole ma non sarà mai abbastanza, non sarà mai abbastanza luce da far risplendere i bianchi, perché i suicidi non sono altro che angeli bianchi che ci ricordano ogni santo minuto della nostra vita che abbiamo solo una missione nel mondo, ovvero vivere. Vivere senza remore, sperimentare, cercare, domandare, parlare, andare avanti, divertirsi anche quando non c’è niente per cui divertirsi, trovare sempre il bello e la meraviglia nelle piccole cose e farlo scoprire a chi non ce la fa. A chi invece si mette troppo presto la benda e decide di seguire la via tracciata da tutti.
Si vive perché ce lo chiedono a squarciagola, perché continuare a indagare, a portare addosso il lutto, ad essere incazzati col mondo e a restituire il dolore ricevuto con ripicche, piccoli inganni o azioni autolesionistiche in realtà non serve a niente. E non rende giustizia al loro messaggio.
Alla morte si risponde con la vita e alla vita si risponde con la morte.
Anna e Roberta